Introduzione

Il Collettivo Pandemico è un gruppo di donne e uomini liber*, provenienti da diverse città italiane che si sono trovati concordi sulla necessità di dare una terza voce al dibattito sulla pandemia. Da marzo ad oggi abbiamo letto da un lato posizioni filogoverntive che si basavano su "il lockdown è necessario perché l'ha imposto il governo", dall'altra posizioni (anche) di movimento che si limitavano a leggere il lockdown come "esperimento sociale di massa" e come "abolizione delle libertà individuali". In questo scritto vogliamo mettere a punto un'altra posizione: il lockdown si è reso necessario per contrastare una crisi sanitaria che altrimenti avrebbe avuto proporzioni ancor più colossali di quanto già non sia stata. Abbiamo limitato la nostra mobilità perché convinte che fosse la cosa giusta da fare, nell'interesse di tutta la collettività. Come diciamo più avanti la nostra posizione si colloca nel solco di altre grandi esperienze internazionaliste, le uniche esperienze attuali di autogoverno (zapatisti e Rojava), che per tutelare le proprie comunità hanno deliberato il lockdown prima ancora dei governi statali.

Nella nostra società ideale è possibile una piena libertà solo nel rispetto di quella di tutt*. E il poter vivere una vita degna e in salute, non morendo a causa di un virus, pensiamo sia un punto di partenza fondamentale.

1. Contro la negazione dell’epidemia, per ravvivare la nostra utopia

Vogliamo riflettere sulle conseguenze sociali, economiche e politiche del diffondersi del virus Covid-19 partendo da due presupposti: che il virus sia reale e che sia potenzialmente mortale. Ogni persona affronta la possibilità di ammalarsi e morire in maniera individuale, come individuale è la sua finitezza: questa postura, finché non aumenta le possibilità altrui di ammalarsi e morire, è poco o niente discutibile. Ma nel ragionare intorno alla natura del virus e alle conseguenze politiche della sua esistenza non si può rimanere intrappolati nel dibattito intorno alla non-esistenza dello stesso, o perdersi in cavilli sul suo grado di pericolosità. Prendiamo per indicatori realistici i numeri e le informazioni diffuse dalla maggior parte del sapere medico scientifico globale: una malattia che non esisteva fino a pochi mesi fa, di cui si sa ancora poco e niente, per cui non si conoscono ancora trattamenti certi, che si diffonde molto rapidamente, con una percentuale di mortalità globale intorno all'1% che alla fine di maggio 2020 ha fatto in Italia più di trentamila morti.

Siamo internazionaliste, quindi le nostre analisi non possono prescindere da uno sguardo a ciò che succede nel resto del mondo. È stato detto in tutti i modi ed è quasi inutile ribadirlo: il virus non conosce confini e manifesta la sua pericolosità in maniera diversa in base alle condizioni che trova in ciascuna realtà. In particolare, seprendiamo i dati del World Health Organization, vediamo come tra i Paesi con il più alto numero di casi registrati ci siano USA, Brasile, Russia e Regno Unito: tutti paesi governati da negazionisti.

Negare il virus vuol dire anche negare le cause che ne hanno portato alla diffusione. Questo virus ci mette davanti a un bivio: da un lato fare di tutto per tornare alla normalità precedente, fatta di sfruttamento delle risorse ambientali e umane, di dominio degli interessi economici sugli interessi sociali e relazionali e di dominio del capitale. Dall'altra realizzare che la normalità precedente è essa stessa il problema e fare di tutto per cambiarla. La prima strada è quella scelta da Confindustria, quella scelta dai Bolsonaro e i Trump ed è, forse, anche la strada più facile. Ma ci porta a sbattere e questo coronavirus è stato solo il primo avvertimento. La seconda è la strada più difficile, più sfidante, ma è anche quella strada che ci può far tornare ad essere realmente protagonisti proponendo delle soluzioni alternative.

I valori fondamentali alla base di questa visione sono: libertà individuale e collettiva, responsabilità individuale e collettiva (perché solo nel caso in cui tutti torniamo a prenderci le nostre responsabilità ci possono essere le basi su cui realizzare il cambiamento), solidarietà (perché nessuna deve rimanere indietro) e rispetto reale del mondo in cui viviamo. E' forse una visione utopica, ma a che serve l'utopia? Citando Eduardo Galeano «Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Ed è giunto il momento di camminare insieme, trovando una nuova consapevolezza nella realizzazione della nostra utopia: se durante un'epidemia il virus si diffonde da corpo a corpo attraverso le interazioni sociali, allora ogni persona diventa responsabile verso le altre della possibilità di portare un danno da contagio. A diversi gradi: chi ha più potere di indirizzo delle azioni altrui, dal singolo al collettivo, ha responsabilità più ampie . Ma questa condizione sfida e ridefinisce i confini fra individuale e collettivo in tutti gli ambiti: responsabilità, orientamento al rischio, libertà, salute. E solleva nuovi interrogativi. L'esistenza del virus, la sua pericolosità, reale e percepita, come modificheranno i nostri comportamenti e le nostre relazioni? Quali sono i principi da cui muovere per ravvivare la nostra utopia a partire dalle condizioni e dalle necessità del presente?

2. Libertà e solidarietà: le nostre radici e il nostro orizzonte

La libertà è una relazione sociale, che non esiste nel vuoto. La libertà per noi è libertà sociale, coniugata alla responsabilità e alla solidarietà, non è libertà egoistica, né stirneriana, né liberale. Molto semplicemente: la libertà che abbiamo vissuto e stiamo vivendo in questa fase di epidemia è coniugata con la solidarietà, la responsabilità e il rispetto dell'altra , della percezione del rischio e del limite dell'altra; è innanzitutto libertà di non far ammalare e di lasciare in vita il prossimo oltre che sé stesse. Questa idea di libertà ci offre un punto di osservazione sulla condizione epidemica come fatto sociale, che evidenzia due atteggiamenti contrastanti: un atteggiamento individualista ed uno solidale.

Il primo è quello di chi mette i propri obiettivi e bisogni davanti a quelli collettivi, negando nei fatti l'esistenza del pericolo epidemico, sia reale che percepito. Non si tratta di creare una categoria morale, si tratta di rilevare un modo di agire che può generare diverse conseguenze, a seconda del potere e della posizione sociale di chi lo attua: dal singolo che vuole riaprire la propria attività perché in emergenza economica, al datore di lavoro che vuole massimizzare il proprio profitto.

L'atteggiamento solidale è la postura di chi nel proprio muoversi nel mondo e relazionarsi con le altre persone tiene conto delle possibilità di diffusione del contagio e se ne fa carico, con attenzione verso gli altri e la loro finitezza, possibile, reale e percepita. La solidarietà in tempi di pandemia dovrebbe essere un concetto essenziale per chi vuole ragionare e agire per il superamento del capitalismo. In questo momento, la solidarietà si manifesta con un bisogno inedito. Nel periodo a maggiore rischio epidemico, essere solidali significa anche tenere atteggiamenti che non aumentino la possibilità di diffusione del virus e non offendano la percezione del rischio delle altre persone.

Accettare e metabolizzare la condizione di una società che sta attraversando una fase epidemica, significa mettersi in grado di adattare i propri comportamenti e intenzioni ad un nuovo limite che prima non esisteva. Un limite fortemente biologico, oltre che sociale. La società è creata e riprodotta anche sulla base delle nostre percezioni, e in una fase epidemica la percezione maggiormente diffusa è pericolo, malattia, morte.

A partire dai comportamenti individuali, bisogna cambiare in parte modalità e tempi di vita, in un equilibrio precario e in movimento tra i propri bisogni e percezioni e quelle di chi ci sta attorno. Accettare e condividere la responsabilità per la salute degli altri significa andare in una direzione che si allontana dall'individualismo esaltato dal capitalismo.

Questo virus ha reso ancora più evidente che individuale e collettivo sono due elementi inscindibili, senza l'uno non può esistere l'altro. Il rischio che si corre spesso è di focalizzarsi solo sull'aspetto individuale senza andare ad approfondire l'aspetto collettivo di un determinato fenomeno. Questa emergenza èla dimostrazione che questo passaggio non è scontato: le fabbriche che hanno tenuto aperto nonostante il lockdown, chi ha scelto di continuare ad andare in giro, sono i classici esempi di chi ha fatto prevalere il benessere individuale tralasciando il benessere collettivo.

Il principio di solidarietà è stato combattuto ferocemente dal neoliberismo e dal neodarwinismo sociale, egemoni dagli anni Ottanta, con argomenti che sono ritornati prepotentemente con la pandemia - insieme a impliciti discorsi eugenetici -, implicando di fatto la morte di migliaia di individui rei di essere poveri o anziani (pensiamo alla criminale idea dell'immunità di gregge senza la disponibilità di un vaccino).

Questo ci indica come concretizzare lo slogan "non sarà più come prima": cominciando da noi, battendoci affinché l'interesse generale, il diritto alla salute di tutti siano prioritari nell'agenda politica.

Pensiamo che organizzarsi in maniera orizzontale e paritaria, riconoscendo l'importanza dei saperi e l'autorevolezza nei vari campi di ricerca, studiando e contribuendo ad accrescere e migliorare le conoscenze e le abilità, sia un metodo di base per risolvere anche le crisi più difficili e per trasformare in senso migliorativo la società, realizzando rapporti sociali liberi dall'oppressione e dallo sfruttamento. In tal senso la nostra attenzione va verso forme di autogoverno, o autoregolazione, libertarie perché non imposte, da praticare qui e ora.

3. Dal Rojava al Chiapas: una risposta internazionalista alla pandemia

Gridare alla repressione e allo stato di polizia è abbaiare alla luna. Ci è sembrata sconcertante la denuncia del lockdown come situazione di "arresti domiciliari di massa" da parte di chi intenderebbe trasformare la società in senso egualitario e solidaristico. Ha agito, in questa lettura, un confirmation bias, cioè l'essere così convinti di una cosa da vedere solo i segnali che favoriscono la propria ipotesi e non quelle contrarie. Tale errore, che si è verificato innanzitutto in campo medico e scientifico, si è prodotto anche nel campo dell'analisi politica e sociale: le misure di contenimento dell'epidemia sono state interpretate come misure liberticide o autoritarie tout-court.Proprio per la nostra storia, e per la storia del contenimento delle epidemie, non possiamo confondere il coprifuoco imposto a Santiago del Cile da Pinochet con le limitazioni alla circolazione per motivi di sanità pubblica in una società liberale.

La quarantena ha generato un dibattito intenso e a tratti verbalmente violento, con forti dissensi tra chi ha messo in luce l'instaurarsi di un regime del controllo e chi affermava la necessità delle misure di distanziamento. La quarantena è stata sicuramente un esercizio gigantesco di controllo, analizzabile attraverso le lenti della biopolitica e derivati, e avrà delle conseguenze in termini di accettazione diffusa dell'autorità e del distanziamento sociale. Però le analisi critiche basate principalmente su questa dimensione spesso vengono esercitate nel comfort delle proprie categorie personali o delle categorie storiche del proprio approccio disciplinare o ideologico, ignorando due aspetti: la novità dirompente e imponderabile di una pandemia di queste dimensioni e il dato biologico e i suoi effetti sulla percezione di ciascuno. Queste analisi sembravano dire che l'esistenza del virus fosse condizionata dalle politiche di controllo, e non viceversa. In sintesi, se si prende come data l'esistenza del virus, non si può affermare che tutto sia stato fatto per esercitare nuove forme di controllo di massa o nuove forme di profitto.

Abbiamo ragionato a lungo sulla pratica dell'isolamento e della quarantena e, anche sulla scorta di esempi storici tanto antichi quanto recenti, abbiamo trovato conferma dell'impressione avuta fin dall'inizio della pandemia. In assenza di cure efficaci e di un vaccino liberamente accessibile, essenziali nella risoluzione dell'emergenza, pensiamo che l'isolamento fisico sia uno strumento, temporalmente limitato, indispensabile per poter evitare una moria di massa. Abbiamo praticato l'isolamento in quanto misura sanitaria, come scelta autonoma, e non perché ce l'ha imposto uno stato con i suoi decreti e le rispettive sanzioni.

Sappiamo bene che una cosa è la responsabilità, una cosa è l'obbedienza. Il difetto è la confusione tra esse. La prima è cosa etica, la seconda giuridica. I mezzi per promuovere l'obbedienza non sono quelli per promuovere la responsabilità. Anche quest'ultima implica doveri, ma sono doveri autonomi che ciascuno impone a se stesso in nome della libertà propria e degli altri, in nome cioè della solidarietà. Mescolare obbedienza e responsabilità è cosa contraria alla natura dell'una e dell'altra, come mescolare soggezione e adesione, vincolo e libertà. Chiamare all'obbedienza e sollecitare la responsabilità sono cose profondamente diverse. A ciascuno il suo: al governo - che aborriamo - le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e imporre); a noi, nelle nostre varie articolazioni, la promozione di un'etica della responsabilità fondata su libertà e solidarietà.

Abbiamo praticato l'isolamento con lo stesso spirito con cui è stato implementato in società liberate e autonome, alle quali tutto il movimento italiano si è sempre sentito vicino e che anche in questo caso hanno indicato chiaramente la strada: le comunità zapatiste e le zone del Rojava autogovernate secondo il confederalismo democratico. In questo senso il comunicato dell'EZLN del 16 marzo ci è parso puntuale e capace di assumere il punto di vista dell'interesse generale e della salute pubblica e collettiva, cioè il punto di vista che in questa situazione ci pare prioritario. Ne riportiamo alcuni pezzi per noi particolarmente significativi, perché tracciano la strada che vogliamo percorrere nella storia di questa pandemia: una strada che parla di critica ai governi e fiducia nella scienza, di femminismo e intersezionalismo, di ecologismo e visione olistica:

Considerando la minaccia reale, scientificamente comprovata, per la vita umana che rappresenta il contagio del covid-19, anche noto come "coronavirus".

Considerando la frivola irresponsabilità e la mancanza di serietà dei malgoverni e della classe politica nella sua totalità, [..]

Considerando la mancanza di informazione veritiera ed opportuna sulla portata e gravità del contagio, così come l'assenza di un piano reale per affrontare la minaccia.

Abbiamo deciso di: […]

Quarto.- di fronte all'assenza dei malgoverni, esortare tutte, tutti e todoas, in Messico e nel mondo, ad adottare tutte le misure sanitarie necessarie che, su basi scientifiche, permettano di uscire, e in vita, da questa pandemia.

Quinto.- invitiamo a non abbandonare la lotta contro la violenza femminicida, a continuare la lotta in difesa del territorio e della madre terra, a mantenere la lotta per le/i desaparecid@s, assassinat@ e carcerat@, e ad innalzare ben alta la bandiera della lotta per l'umanità.

Sesto.- invitiamo a non perdere il contatto umano, bensì a cambiare temporaneamente i modi di saperci compagne, compagni, compañeroas, sorelle, fratelli, hermanoas.

Bisogna analizzare criticamente la teoria che considera la lotta all'epidemia come una sorta di laboratorio per il perfezionamento di un regime biopolitico autoritario, e allo stesso tempo evitare di cadere in una visione apocalittica che vede l'umanità destinata a soccombere nella lotta in corso contro la propria autodistruzione. Covid-19 funziona da liquido di contrasto nel rendere evidenti discriminazioni sociali pre-esistenti e situazioni di dominio e oppressione consolidate che stanno vivendo ora un'ulteriore accelerazione.

In un mondo globalizzato, la prima risposta alla domanda se Esiste un mondo a venire? (come il saggio di Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro) deve partire da una prospettiva internazionalista. Questo vuole dire sviluppare resistenze in questo mondo e in questo tempo, nella consapevolezza che non è il primo "tempo catastrofico" che l'umanità sta vivendo. Vuol dire avere e ridare fiducia alle possibilità di riscatto sociale, ridare senso alla storia costruendo storie e destini collettivi e non più solo individuali.

4. Risposte solidali a questioni collettive: sicurezza sul lavoro contro lo sfruttamento

L'anarchia contro il virus è anarchia contro lo sviluppo distruttivo veicolato dal capitalismo e cioè dallo sfruttamento e dalla gerarchia, ma anche da uno stile di vita insensato caratterizzato dal consumismo diffuso: è la tensione necessaria per la trasformazione del modo di vivere. Anarchia come interesse generale, come prendersi cura della terra e di chi l'abita stabilendo relazioni tra i viventi tutti non dettate dal dominio e dallo sfruttamento ai fini del profitto.

Un esempio che ben esprime che cosa significhi affrontare una questione collettiva in un'ottica solidale è quello della scuola, cioè della ripresa della scuola in presenza. Se il dibattito sul lockdown inizia già oggi a diventare obsoleto, quello sul sistema scolastico durerà sicuramente almeno fino all'autunno di quest'anno e oltre. Durante i due mesi di chiusura in molti hanno iniziato a richiedere la riapertura delle scuole, a partire dal fare gli esami di terza media in presenza. Mentre i movimenti, in particolare Non Una Di Meno, riflettono e agiscono su un cambiamento complessivo del sistema scolastico, sui media mainstream le notizie parlano solo di una pressione alla riapertura, non di una pressione al rifinanziamento massiccio del welfare e in particolare del sistema scolastico.

La richiesta di riaprire sembra arrivare in particolare dalle famiglie, perché tornare al lavoro dovendo allo stesso tempo gestire i figli pone problemi reali. Come in altre questioni, anche qui la pandemia ha un effetto rivelatore: in assenza di un welfare universale, laico ed efficiente che aiuti le famiglie nella gestione dei figli e liberi le donne da questa incombenza, l'unico servizio a cui appoggiarsi è la scuola, il cui fine dovrebbe però essere diverso. Senza voler sminuire il problema ci domandiamo però cosa significhi per i lavoratori e le lavoratrici del sistema scolastico essere chiamate ad un obbligo di lavoro in presenza quando il Ministero non ha ancora definito protocolli chiari e stabilito le risorse necessarie per realizzare le adeguate misure di sicurezza.

Come in tutti i luoghi di lavoro, queste misure vanno pensate, progettate, concordate con i lavoratori e applicate strettamente. Se si pensa a un'edilizia scolastica drammaticamente fatiscente, a un sistema carente di risorse da decenni, già in sofferenza come quantità e qualità dei posti di lavoro, come pensiamo che si possa rimediare a tutto questo mettendo in atto adeguate misure architettoniche, politiche dell'impiego, e di sicurezza sanitaria nel giro di tre mesi senza risorse dedicate?

Mettere al primo posto nelle proprie rivendicazioni sul sistema scolastico la parola d'ordine "riapertura", invece di sicurezza e qualità del lavoro e dell'ambiente (assunzioni, edilizia ecc.), sembra fare eco alle proposte politiche del governo. Quest'ultimo già preme per riaprire, per non mettere a rischio la produzione e per limitare i servizi erogati. Chi chiede la riapertura può continuare a ignorare le perplessità dei lavoratori in nome della necessità e della peculiarità della funzione del sistema scolastico. Oppure può essere solidale e chiedere innanzitutto risorse: per assumere nuovo personale, per affittare nuovi posti, per iniziare a rimettere in sesto l'edilizia scolastica, per avere a disposizione personale e mezzi dedicati alla sicurezza sanitaria. Coinvolgendo i lavoratori della scuola nelle rivendicazioni, rinunciando tutti a qualcosa e cercando soluzioni nuove e collettive.

In molte delle situazioni che viviamo vi sono fattori di sfruttamento, oppressione e dominio, e pratiche o dinamiche di liberazione da tali fattori. Lungi dall'essere bianchi o neri, gli ambiti in cui siamo immerse vivono di contraddizioni, di dialettica e di conflitto. A noi sta, in ogni ambito e aspetto della realtà, evidenziare queste contraddizioni, opporsi ai fattori di sfruttamento e di oppressione, dare spazio alle dinamiche di liberazione e trasformazione dei conflitti, con la consapevolezza che tali tensioni, oltre a richiedere impegno quotidiano, sono infinite.

5. Critica "con" la scienza e critica "contro" la scienza

Contro la post-verità, il complottismo, la cialtronaggine: rivendicare il diritto-dovere allo studio di chi vuole trasformare il mondo nel senso della giustizia e dell'uguaglianza.

Dire che il virus non esiste, che stanno mentendo, significa affermare che l'intera comunità scientifica globale, in particolare quella medica in tutte le sue accezioni, ha mentito all'unisono. Significa credere che esista la possibilità di eterodirigere un insieme vasto, difforme, eterogeneo di milioni di persone legate unicamente dall'appartenenza a d una stessa ampia disciplina. Senza contare il potere che si sarebbe dovuto esercitare sulle varie forze politiche ed economiche nazionali e sovranazionali per fare andare il globo in un'unica direzione, pur nelle varie differenze locali. Eliminando le tentazioni di semplificare il mondo per poterlo leggere, spiegare e piegare alle proprie idee, ai propri malesseri e idiosincrasie, quello che rimane è dibattere su quali relazioni e visioni del mondo possiamo fondare delle proposte politiche ed economiche adeguate al cambiamento. Rivendichiamo il ruolo importante dell'autorevolezza nei campi del sapere, la necessità del riconoscere la propria limitatezza per collaborare con ambiti, "aree" diverse del sapere.

La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ce lo ripetiamo spesso. Gli interessi e i valori di chi governa la produzione e la diffusione dei saperi tecnico-scientifici si riflettono inevitabilmente nell'applicazione pratica di questi saperi. Questo riguarda sia "come" questi saperi vengono applicati, cioè se come mezzi di liberazione o di oppressione, sia "quali" di questi saperi vengono favoriti o rigettati dal potere politico dominante. In entrambi i casi si tratta di processi complessi e conflittuali. Voci critiche sono sempre esistite nella storia dei saperi tecnico-scientifici, collegandosi più o meno direttamente a istanze politiche più ampie. Ci sono due modi ben diversi per approcciarsi alla critica del tecnico-scientifico dominante, entrambi legati a importanti conseguenze politiche e sociali: una critica "con la scienza" e una critica "contro la scienza".

La critica "con" la scienza è quella che viene fatta a partire dalle conoscenze e dalle pratiche elaborate nel corso del tempo dalla comunità scientifica di riferimento, restando un'attività basata sullo scambio e sulla collaborazione. Nel corso del tempo la critica al sapere tecnico-scientifico è diventata sempre più accessibile e partecipata, a seguito di una maggiore diffusione e accessibilità del sapere. Gli ambiti scientifici e soprattutto le modalità di applicazione di una teoria o di una disciplina sono diventati dei terreni di conflitto politico esplicito, di analisi critica. Nel ventesimo secolo ci sono stati diversi movimenti basati proprio sulla critica al sapere tecnico-scientifico e ai suoi modi e finalità d'applicazione. Tra questi, i risultati più concreti sono stati ottenuti quando si è costruita una critica del sapere tecnico-scientifico portata avanti "con" la scienza. Un esempio sono le critiche al sapere medico e alle sue pratiche, come quelle dell'antipsichiatria o della ginecologia femminista, in cui i movimenti hanno saputo coinvolgere esponenti delle comunità professionali di riferimento creando uno scambio di saperi e prospettive che ha portato a miglioramenti tangibili nella vita di tante persone. Questi movimenti hanno colpito e colpiscono in maniera puntuale il cuore del problema, cioè le storture di stampo autoritario nella creazione, diffusione e utilizzo del sapere tecnico-scientifico. In questo modo possono essere un veicolo per la trasformazione in senso solidale e anarchico della società.

La critica "contro" la scienza, d'altro canto, è spesso un'impresa individuale. Ne è un esempio Luc Montagner: le sue teorie non sono solo controverse, ma anche discreditate a gran voce dalla comunità scientifica di riferimento. Quello che dice va contro il metodo scientifico stesso, in quanto metodo basato sulla collaborazione, discussione e validazione tra pari. Si tratta di una voce che si presenta come critica dell'autorità, ma che non va nella direzione di una critica al concetto di autorità, anzi: sostituisce l'autorità della collettività (la comunità medico-scientifica) con l'autorità del singolo (lo studioso geniale ma ripudiato). Oggi è sempre piú facile sostenere posizioni simili: chiunque può affiancare i pareri di una studiosa, anche critica ma preparata nel settore, con chi si improvvisa scienziato dopo la visione di un video, dando pari dignità e credibilità a entrambi.

Un altro esempio di critiche "contro" la scienza sono le critiche alla fantomatica "teoria del gender". Ancora una volta esiste un consenso scientifico abbastanza evidente sulla costruzione culturale del "genere" e l'esistenza di diversi marcatori biologici per determinare quello che viene chiamato "sesso" (dunque l'insensatezza di dividere il mondo in "maschi" e "femmine"). Questo consenso viene generalmente criticato sulla base di affermazioni di studiosi isolati dal resto della comunità di riferimento, o sulla base di affermazioni che non hanno neanche una falsa pretesa di scientificità. Le critiche alla "teoria del gender" così come il negazionismo del Covid-19, non colpiscono l'uso autoritario del sapere tecnico-scientifico ma lo alimentano: non contestano l'autorità, vogliono solo prenderne il posto. Infatti, la cornice politica entro cui queste teorie si muovono è spesso quella del conservatorismo e dell'autoritarismo. Nel caso della critica alla "teoria del gender" questo è evidente ed esplicito. Nel caso di Montagner l'autore non ha un profilo pubblico politicamente definito, ma possiamo chiederci quali sono i soggetti che sono politicamente avvantaggiati dalla circolazione di contenuti simili. Sappiamo per esempio che il fascismo internazionale sta avendo un ruolo importante nella viralizzazione di notizie false e allarmiste sulla pandemia. Le forze reazionarie e repressive sono storicamente quelle che hanno il maggior interesse nell'andare "contro" la scienza.

L'attitudine critica è indispensabile per la costruzione di una società libertaria e solidale. Ma il nostro orizzonte anarchico non è quello di trovare nuove streghe da bruciare: è quello di abolire l'inquisizione. La critica "con" la scienza si oppone all'uso autoritario del sapere tecnico-scientifico e può migliorare in senso libertario la scienza e la società esistenti. La critica "contro" la scienza alimenta l'uso autoritario del sapere tecnico-scientifico, favorendo l'instaurarsi di vecchie e nuove gerarchie di potere.

6. Ribaltare il paradigma ambientale, sanitario e socio-economico esistente

Sappiamo che le pandemie nella storia hanno portato a una polarizzazione sociale: i poveri hanno patito e subito di più. Contro questa dinamica intendiamo adoperarci. Questione sanitaria, sociale, economica, ambientale sono aspetti dello stesso problema: uno sviluppo senza progresso. Di tutti questi aspetti dobbiamo occuparci secondo un approccio olistico (in grado di ricomprendere la molteplicità). È necessario ribaltare il paradigma socio-economico, ambientale e sanitario imperante e irrazionale.

Questione ambientale: La Lombardia, regione più dinamica e produttiva d'Italia, è stata lo scenario in cui il coronavirus ha potuto diffondersi ed estendersi, trasformando quella che in altre zone è stata un'importante emergenza sanitaria in una tragedia di massa dall'impatto sociale devastante. Nelle realtà medio-piccole della bergamasca e della bassa bresciana non c'è famiglia che non sia stata toccata dal contagio quando non da decessi per i quali, oltretutto, è mancata ogni possibile elaborazione collettiva del lutto determinando un vulnus sociale difficilmente sanabile. Ma la Lombardia è anche l'area in cui il modello di ordine sociale ed economico neoliberista che ci ha portati fin qui trova la sua massima espressione. Il 47% delle attività produttive lombarde non ha mai chiuso, tra queste gli allevamenti intensivi di bestiame presenti in maniera massiva proprio nelle zone più colpite dalla pandemia dove nei momenti di picco tra marzo e aprile 2020 il tasso di mortalità ha registrato incrementi superiori al 200% (fonte ISTAT). Basta una passeggiata nella Bassa per essere avvolti dall'odore nauseante generato dagli sversamenti nei campi dei liquami prodotti dagli allevamenti, responsabili dell'emissione di ammoniaca che, una volta nell'aria, si lega ai micidiali ossidi di azoto andando a formare i sali di ammonio che compongono il 50% del particolato sottile responsabile dell'inquinamento e che, come un aeroplano, ha trasportato le particelle del virus a decine di metri di distanza aumentando in maniera esponenziale i contagi.

Questione sanitaria: la salute è "diritto fondamentale dell'individuo" ma è anche "interesse della collettività". Così la sancisce la Costituzione italiana; è quindi sia diritto individuale sia interesse generale anche per il diritto. In tal senso va il Servizio Sanitario Nazionale, che sgancia la salute dalle condizioni economiche personali. Restiamo in Lombardia, dove è ancora più evidente come lo smantellamento sistematico del sistema sanitario pubblico abbia reso ingestibile l'emergenza, mettendo in discussione il diritto stesso alla salute. La medicina preventiva territoriale, indispensabile filtro per le cure primarie, in gran parte smantellata e sostituita da gusci vuoti quali le Agenzie Territoriali Sanitarie, non ha garantito il presidio che era necessario a monitorare la quarantena delle persone contagiate: ogni nucleo familiare in cui si è verificato un caso di Covid-19 è stato un potenziale focolaio lasciato a se stesso.

Questione sociale: c'è un aspetto più subdolo, ma altrettanto determinante, della polarizzazione sociale prodotta dalle pandemie, per cui a pagarne di più le conseguenze non sono solo i poveri sul piano economico, ma anche quelli sul piano culturale. Restiamo sempre in Lombardia. Il triangolo della pianura padana Cremona/Bergamo/Brescia non è certo una delle aree più povere d'Italia, ma è una sacca di povertà culturale endemica dove il modello di sviluppo senza progresso ne ha plasmato la fisionomia dando una mano al virus a seminare morte. È un tessuto sociale in cui il paradigma lavoro-a-tutti-i-costi è quello dominante e in cui la dispersione scolastica è particolarmente elevata. Nel 2018 nella sola provincia di Brescia un terzo degli studenti iscritti alla scuola superiore ha abbandonato gli studi (fonte Tuttoscuola) e, se nel passato la relativa bassa scolarizzazione ha sempre fatto il paio con un tessuto produttivo che attraeva forza lavoro in abbondanza, oggi con la crisi e le trasformazioni produttive in atto avere una marea di studenti che non arriva nemmeno al diploma non è certo un buon viatico per il futuro. È un tessuto in cui l'alienazione sociale è di casa: l'abuso di alcool è culturalmente e socialmente accettato, ragion per cui il consumo di bevande alcoliche in quantità intossicanti a partire dall'età giovanile è percepito più come una bravata, quando non come un comportamento acquisito incontrovertibile, che per il reale pericolo di dipendenza che ne può derivare. In questo scenario, il tanto auspicato ritorno alla "normalità" significa sostanzialmente tornare alla normalità del ricatto lavorare-per-consumare in cui buona parte di chi vive in quei luoghi è immersa senza nemmeno rendersene conto.

È necessario analizzare insieme queste tre questioni per affrontare questa e la prossima "crisi", cioè per prevenire gli effetti dello sfruttamento dell'ambiente da parte dell'essere umano (cambiamento climatico, altre epidemie). Avere uno sguardo critico, precondizione all'agire trasformativo, sulle condizioni che influiscono sulla salute della collettività: deforestazione, allevamenti, produzione di gas serra, inquinamento dell'acqua, desertificazione, concentrazione urbana, ecc. sono tutti problemi di salute pubblica.

La terra è un essere vivente che non può essere alterato a piacimento, pena il morire trascinando tutti nel disastro. Viveiros de Castro e il paradigma dell'antropocene (che non è "solo" capitalocene) indicano la necessità sempre più forte di decentrare il nostro punto di vista. Non abbiamo certezze ad ora sulle motivazioni precise dell'origine biologica del virus, nonostante le inchieste giornalistiche uscite sull'argomento. Tuttavia ci pare chiaro che esso sia una conseguenza dell'imperativo della crescita, dell'obbligo di accelerare la produzione e il profitto.

In tal senso l'attenzione va rivolta alle condizioni sociali dell'umanità in senso ampio e cioè anche alle condizioni ecologiche devastate in cui versa il pianeta. Economia, ecologia, produzione e devastazione ambientale sono intrecciate in maniera sempre più evidente. E la tensione di chi, un tempo, voleva una nuova umanità si volge oggi a ribaltare il modello di una terra piegata al dominio umano. In tal senso potrebbe essere utile decentrare il punto di vista dell'umano accogliendo la complessità del vivente tutto, entro una nuova visione.

Conclusioni

La realtà in cui siamo immersi è sicuramente buia. Era già in penombra prima, ora è ancora più oscura. Allo stesso tempo è difficile credere che per illuminarla basti trovare un interruttore che accenda la luce. Camus fa intendere che non vi sia altra scelta per l'uomo se non quella di cogliere e vivere pienamente l'assurdo, cioè la stessa condizione esistenziale, il buio appunto, e che sia del tutto illusorio delegare la soluzione di ciò alla ricerca di un capro espiatorio. L'unica via è vivere dentro l'assurdo, lottando per strappare a esso margini di vita: una fatica di Sisifo certo – il masso che portiamo in cima alla montagna con gran fatica rotolerà inesorabilmente dall'altra parte, una volta raggiunta la vetta – ma l'unica per cui vale la pena vivere. In altri termini: non vi sono spiegazioni semplici a problemi complessi. Né scorciatoie. Una prospettiva politica all'altezza di questi tempi pandemici non può prescindere dal tenere assieme dimensione individuale e dimensione collettiva, uno spazio che coniughi i bisogni dei singoli, con la dimensione sociale della solidarietà e della responsabilità. Bisogna vivere dentro e contro il mondo in cui siamo, ancor di più ora che il mondo si è fatto pandemico.