Pubblichiamo un’intervista a un lavoratore delle superiori che rilancia la necessità di una mobilitazione in difesa della salute e della sicurezza di tutte.

Com’è andato il rientro a scuola? Quale è la tua prima impressione?

Sicuramente nei primi giorni si è notata una gran voglia di tornare soprattutto dalla parte degli studenti; dall’altra accanto a ciò è emersa subito in molti la consapevolezza che fosse un rientro problematico dovuto a due enormi questioni non risolte: 1. non sono stati trovati spazi scolastici ulteriori, per volontà e per cattiva organizzazione; 2. non è stato raddoppiato, ma nemmeno aumentato, il personale che lavora nella scuola. Quello che era lampante per molti fin dalla primavera, cioè che per convivere in questa situazione di epidemia fosse necessario dimezzare il numero di alunni per classi, non è stato fatto. La situazione attuale è quella di un grande affollamento in classe, del tutto uguale a prima, o di una parziale riduzione della didattica in presenza sostituita dalla didattica a distanza demandata a google. Quindi volontà di ripartenza sì, ma unita a un certo timore più che giustificato visti i casi di positività già emersi a fronte di un’attività di ricerca dei positivi pressoché nulla e comunque extra-scolastica.

Cosa prevede il protocollo sanitario per la didattica in presenza?

Si intersecano diversi livelli di responsabilità, scuola, regioni, Ministero dell’Istruzione e Ministero della Sanità con evidenti casi di conflitto di competenze. In caso di positività è tutto delegato alla ASL locale e la dirigenza scolastica cerca di non far trapelare nulla al di là della cerchia ristretta del contagiato. Le motivazioni addotte sono due: la difesa della privacy e il non volere generare panico. In realtà ciò serve a far continuare l’attività scolastica in condizioni insostenibili nonostante il pericolo crescente. C’è un referente Covid per ogni scuola; questi ha l’obbligo di avvertire l’ASL che, previo sopralluogo, testa eventuale positività dei contatti ravvicinanti esclusivamente nella classe del positivo e tra i suoi professori, non contando che studenti di classi diverse si frequentano e i professori girano per diverse classi. Non sono previsti test che tutelino studenti e insegnanti.

Come giudichi le condizioni di lavoro all’interno della scuola?

Le direttive del Ministero dell’istruzione sull’utilizzo dei DPI di certo non fanno proprio il principio di precauzione. Contro l’evidenza scientifica si è posta a un metro la distanza tra le persone entro cui non è necessaria la mascherina. Anthony Fauci è solo l’ultima voce autorevole in ordine di tempo che di recente ha ripetuto che è necessario tenere una distanza interpersonale di 180 cm o più, e indossando la mascherina.
Quindi se fosse per il Ministero nelle scuole italiane quando le bocche stanno a un metro di distanza non ci sarebbe bisogno di indossare la mascherina. Nelle mie classi siamo dalle 25 alle 28 persone negli stessi metri quadri di prima e secondo il Ministero non dovremmo mettere le mascherine perché i banchi hanno tra loro 30, 40 cm di distanza e le bocche stanno a circa un metro l’una dall’altra. Per fortuna la prassi in atto nella maggior parte dei casi è meno lasca di quanto disposto dal Ministero. C’è maggiore consapevolezza di quanto viene previsto a livello ministeriale. Ciò non toglie che la situazione dentro le scuole sia insostenibile e che sia necessaria una mobilitazione forte delle lavoratrici e lavoratori della scuola in difesa della salute e contro le promesse mai mantenute del governo (spazi e personale), oltre che sulla questione salariale. Nelle prime mobilitazioni sindacali e non promosse in questo inizio di anno scolastico si toccano i punti 2 (spazi e personale) e 3 (salario), ma mi pare venga posto in subordine il punto 1 (salute), che invece è centrale. È necessario pretendere la difesa della salute di tutti i componenti che vivono la scuola e mettere tale questione al primo posto dell’agire di noi tutti. Perché la nostra situazione non è diversa da quella dei lavoratori e delle lavoratrici di fabbrica costretti a produrre fianco a fianco nelle settimane più tragiche dell’epidemia in Italia.

Cosa si poteva e si può fare di diverso e di migliore nell’organizzazione scolastica?

Bisognava, e bisogna, innanzitutto assumere che siamo di fronte a un’epidemia che sta provocando quasi un milione di morti e oltre venti milioni di malati nel mondo. E i numeri aumenteranno. Le prospettive sono quelle di una possibilità di uscita da questa situazione alla fine del 2021 in Europa e non prima di quattro anni a livello globale. Si poteva – se non fossimo accecati dalla fretta di tornare alla “normalità” – assumere la portata epocale della cosa, “investire” nella questione degli edifici (a partire dal riutilizzo del patrimonio già esistente, innumerevole nelle città), assumere i precari – molti dei quali hanno già anni di esperienza nella scuola – organizzare la didattica all’aperto per quanti più mesi possibili, ed eventualmente coadiuvare queste direttrici essenziali con la cosiddetta didattica a distanza, che può essere uno strumento integrativo utile, se usato accanto a queste misure e se libero dalle piattaforme proprietarie. Si poteva lavorare in questo senso a partire da marzo. Ma la tendenza a minimizzare la pandemia, l’abitudine a delegare le scelte al Ministero di turno e una certa visione fatalista diffusa per cui ci si affida sempre alla fortuna hanno portato a questa situazione intollerabile.