In una delle tante mobilitazioni alle quali abbiamo preso parte negli anni scorsi risuonava lo slogan: “blocchiamo tutto”. In solidarietà con le lavoratrici francesi in sciopero, lo slogan riprendeva un’indicazione lanciata dagli ambienti sovversivi d’oltralpe e non solo a indicare la necessità di bloccare le merci e i flussi (materiali e digitali), volano del sistema capitalista teso all’accumulazione del profitto per pochi e all’intensificazione dello sfruttamento per molti, e allo stesso tempo fattore della progressiva devastazione dell’ambiente.  

Ora, con il propagarsi del virus Covid-19, o meglio con il nostro ingresso nella nuova età pandemica, è giunta l’ora di concretizzare ed estendere tale slogan. “Blocchiamo tutto” deve voler dire tutto davvero, noi stessi compresi. Blocchiamoci, fermiamoci. Blocchiamo i luoghi di lavoro, le merci, i flussi, gli hub, le infrastrutture, le connessioni e blocchiamo noi stessi che a questi ambiti diamo vita, volenti o nolenti.  

Viviamo tempi accelerati. Nel corso degli anni si sono succeduti numerosi campanelli d’allarme, basti pensare alle crisi economiche e sociali o alla crisi climatica. Ma non abbiamo capito, non abbiamo voluto capire. Nel 2020 è arrivato l’ultimo segnale in ordine di tempo: il Sars-Cov-2, la malattia da Covid-19, una delle più gravi pandemie degli ultimi 100 anni. 

La portata della questione è di tale evidenza che le stesse istituzioni internazionali non riescono più a negarla. Il 13 luglio 2020 Lise Kingo, direttrice esecutiva del Global Compact dell’ONU, ha definito la crisi generata dal coronavirus solo “un’esercitazione antincendio”, affermando: “il problema è che non è sostenibile il modo in cui viviamo e produciamo attualmente sul pianeta”.

L’indicazione che la pandemia ci dà è effettivamente chiara: smettere di crescere. Farla finita con la crescita, con l’imperativo economico – a cui tutti, governanti e governati, sfruttatori e sottomessi – siamo legati come quei cani un po’ rimbecilliti che senza guinzaglio perdono la strada di casa.

Farla finita con la crescita e abbracciare una a-crescita - nel significato di opposizione a una logica di produzione e consumo che si ritiene distruttiva -, una situazione sociale di ritrovata empatia con l’ecosistema che soddisfi i nostri bisogni reali e non indotti, che ci liberi dall’asservimento del consumo, dal dovere lavorare per avere un reddito per potere spendere, poco o tanto, nel centro commerciale o nella grande distribuzione o nel negozio più o meno trendy, fisico o virtuale che sia.

La proposta della a-crescita e della de-crescita, citando Latouche, “sta nella costruzione di una società alternativa al produttivismo del capitalismo, che non è l’inversione della crescita (…) ma l’affermazione di un’economia diversamente performativa.”

Dare vita a uno sciopero a oltranza del superfluo verrà tacciata di essere una provocazione, o un’utopia. Sì, e necessaria ribattiamo noi: utopia, non luogo, a cui tendiamo per liberarci dal pantano di un mondo malato, che l’uomo contemporaneo - l’homo oeconomicus così egocentrico e autocentrato - ha infettato con le sue attività nocive.

Questo sviluppo globalizzato è così veloce quanto fragile, assomiglia a un’auto potentissima lanciata ad alta velocità su un circuito estremamente impegnativo. E la sensazione è che il divario tra la manovra arrischiata ma che ha successo e l’incidente sia sottile. Eppure tanti non lo vogliono capire. Ricordiamo gli slogan che andavano per la maggiore nelle principali città italiane a febbraio quando il virus si stava già diffondendo: “Bergamo mòla mìa”, “Milano non si ferma”, “Bologna non si ferma”, etc. La logica era sempre la stessa: “produci-consuma-crepa”. Fa niente se il rischio del “crepa” è molto più elevato, l’importante è mantenere attivo il “produci” e il “consuma”.

Più che “arrestateci tutti” come dicevamo fino a poco fa, ora dovremmo gridare “arrestiamoci tutti”, interrompiamoci tutte, blocchiamoci tutti.

Enzo Paci insegnava l’importanza dell’epoché, un concetto, una pratica, un atteggiamento filosofico che indica la sospensione, la messa tra parentesi, ma anche la pausa e il rallentamento, al fine di guardarsi intorno, di decentrarsi, di trovare connessioni e angoli visuali che fino a ora non siamo stati in grado di vedere tutti presi dai nostri assoluti.

E allora rallentiamo, fermiamoci, blocchiamoci, abbandoniamo la produzione e il consumo come unici principi della nostra relazione col mondo.

Siamo a una svolta: lo stesso movimento operaio, o socialista, ha concluso da tempo il suo compito storico, invischiato nelle stesse contraddizioni del capitalismo (essendo rimasto legato al dogma della produzione-per-consumare); ora è necessario liberarsi dal solo obiettivo di attuare una redistribuzione dei benefici della produzione per sfidare, mettere in discussione radicalmente, la produzione stessa.

Non abbiamo bisogno di governi che ci indichino la strada da percorrere, tutt’altro. Dobbiamo mettere in campo tutte le nostre coscienze e intelligenze autonome per realizzare pratiche nuove.

Noi eredi del socialismo, certo antiautoritario, noi anima dei movimenti sociali contemporanei dobbiamo capire ciò che è importante, essenziale, desiderabile, e ciò che non lo è, e soppesare quanto ogni ambito di produzione e di consumo pesi sul pianeta, sul suo sfruttamento, sulla sua devastazione. Dobbiamo fermarci e invertire la rotta. Non partiamo da zero. Una sensibilità in questo senso c’è ed è data da quelle pratiche di mutuo aiuto che si sono andate intessendo negli ultimi anni a fronte di una crisi sempre più sistemica. Ma c’è bisogno di una rottura, di un cambio radicale di paradigma. Come renderlo possibile è cosa su cui ragionare. Come far sì cioè che le pratiche di mutuo aiuto supportino materialmente chi è pronto ad abbracciare questo nuovo paradigma di vita. Ancora, rimane aperta la questione di come ottenere una redistribuzione radicale delle risorse togliendole dalle grinfie di quell’1% della popolazione che possiede oltre il 48% della ricchezza mondiale.

Operare tale rottura vorrebbe dire rimettere davvero tutto in discussione e cambiare direzione. E questo, forse, sarebbe l’unico modo per guadagnarci un futuro.