Dialogo con il prof. Massimo Florio, docente di Economia Pubblica presso il Dipartimento di Economia, Management e Metodi Quantitativi presso l’Università degli Studi di Milano, a partire dal libro La privatizzazione della conoscenza, Laterza 2021

Che cosa accomuna i tre grandi temi che tratta nel libro: salute umana, cambiamento climatico e governance dei dati in merito alla conoscenza e alla sua privatizzazione?

Credo che abbiano in comune il fatto di poter essere delle grandi opportunità per il futuro del pianeta, ma che possano essere dei potenti fattori di creazione di disuguaglianza all’interno delle strutture economiche e sociali che li gestiscono. In tutti e tre i casi il meccanismo fondamentale è quello della creazione della conoscenza, cioè sono tutti e tre temi in cui il capitale intangibile della conoscenza è un elemento chiave e sono tutti e tre casi in cui l’appropriazione privata di questo capitale intangibile può essere un grande fattore di disuguaglianza sociale.

E questo si è visto soprattutto sul tema salute umana per quanto riguarda la pandemia che stiamo attraversando in questo momento. Ho trovato la proposta Biomed Europa illustrata nel suo libro molto interessante e lungimirante su come si potrebbero affrontare future pandemie perché, come lei scrive, ce ne saranno altre; non dobbiamo fare l’errore di ritenere questa superata. Secondo lei quale dovrebbe essere la missione di Biomed Europa e quali compiti dovrebbe avere?

Una missione molto concreta: si tratta in sostanza di identificare una serie di progetti di ricerca in ambito biomedico, farmaceutico, sui vaccini, ma anche sulle strategie preventive diagnostiche e farlo per tempo. Quindi una struttura di questo genere dovrebbe avere un orizzonte trentennale e dovrebbe identificare come priorità quegli ambiti della salute umana che sono trascurati dagli investimenti delle imprese farmaceutiche, oppure che non sono trascurati, ma per i quali le imprese farmaceutiche scelgono dei prezzi assolutamente esorbitanti che di fatto dividono il mondo tra quelli che possono permettersi certe cure e quelli che non possono permettersele. Si dovrà identificare queste aree di ricerca, cosa non impossibile perché in realtà da molto tempo sia l’OMS che una serie di esperti indipendenti le hanno individuate. Io stesso e il gruppo con cui presenteremo la proposta al Parlamento Europeo il 16 dicembre 2021 abbiamo intervistato cinquantasei esperti internazionali, sotto vincolo di anonimato perché alcune sono persone che lavorano all’interno delle case farmaceutiche, che ci hanno fornito una serie di indicazioni su quali potrebbero essere le priorità che non saranno coperte dalle imprese farmaceutiche.

Sempre su Biomed Europa riprendendo il discorso sulle diseguaglianze da cui siamo partiti: quanto potrebbe essere utile una struttura pubblica di questo tipo per una diffusione più equa dei vaccini anche in quei Paesi che non stanno avendo accesso? Biomed Europa potrebbe avere un ruolo in questo?

Facciamo anche qui un esempio molto concreto. Negli USA i National Institutes of Health sono un organismo pubblico, dipendono direttamente dal Ministero della Salute; per intenderci sono l’istituto di Anthony Fauci. Stiamo parlando di una macchina di produzione della conoscenza con un bilancio di 41 miliardi di dollari l’anno, cioè come 40 CERN. Il centro di ricerca sui vaccini dell’istituto di Fauci era arrivato molto vicino alla definizione di alcune innovazioni molto importanti sulla stabilizzazione di certi tipi di proteine che servono per veicolare, per esempio, i vaccini a RNA messaggero. Dopodiché hanno deciso di collaborare con Moderna, hanno deciso di dare alcune licenze sui brevetti, a titolo probabilmente anche gratuito, a BioNTech e a varie altre case farmaceutiche. Ora, non c’era nessun obbligo di fare questo, i National Institutes of Health avrebbero potuto arrivare fino in fondo, cioè brevettare il vaccino - diciamo che loro hanno brevettato solo una componente da loro scoperta - e a questo punto avrebbero potuto assegnare la produzione del vaccino liberamente a chi lo voleva nel mondo, ovviamente con degli standard di qualità da certificare.
Il secondo esempio, molto concreto, riguarda il vaccino a noi noto come AstraZeneca. In realtà è un vaccino interamente sviluppato dall’Università di Oxford e finanziato al 100% con fondi pubblici e solo una piccola percentuale di donazioni di fondi privati. Sono stato anche in contatto con il gruppo di Oxford, così come ho intervistato altri esperti, e anche nel caso di Oxford non c’era nessun obbligo di cedere il vaccino ad AstraZeneca. Il governo britannico, cioè, avrebbe potuto tenersi la proprietà intellettuale, o meglio riconoscere la proprietà intellettuale all’Università di Oxford, riconoscerne il progetto e a questo punto AstraZeneca, piuttosto che il Serum Institute in India, piuttosto che un’ottima società di produzione in Sudafrica avrebbero potuto produrre liberamente il vaccino. Quindi in concreto di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del fatto che le quantità disponibili avrebbero potuto essere molto maggiori, la logistica molto più semplice e in particolare, tornando al tema disuguaglianza, il prezzo completamente diverso. C’è uno studio serio fatto da Oxfam, che è una tra le principali organizzazioni non governative del mondo, insieme all’Imperial College di Londra che dice che il vaccino mRNA potrebbe avere un costo di produzione tra 1,20 e 2,50 dollari. Il prezzo a cui vengono venduti in Europa Moderna e Pfizer è attorno a 20 dollari, con un ricarico applicato di dieci volte. È chiaro che questo taglia fuori molti Paesi. Questo è un esempio molto concreto, queste cose scienziati pubblici sono in grado di farle e i governi sono in grado di appoggiarle.

E questo porta alla situazione in cui siamo adesso con le varianti che si sviluppano nei Paesi che non hanno accesso ai vaccini

Certo perché qui il fattore tempo è cruciale. Si è perso molto tempo e questo tempo lo paghiamo. Non sono un esperto di queste cose, ma ho intervistato vari esperti e tutti affermano che i coronavirus in particolare, che hanno un RNA molto semplice, a ogni replicazione fanno degli errori senza meccanismi correttivi. Mi hanno spiegato che i virus RNA sono trentamila basi, mentre il DNA umano sono tre miliardi di basi e di questi tre miliardi una grande quantità serve a correggere gli errori, diversamente muteremmo a ogni giro. Un po’ di errori li facciamo e questi errori sono poi le malattie genetiche, ma sono eventi relativamente rari. Invece i coronavirus a ogni giro mutano; oggi noi abbiamo Omicron, in realtà le varianti sono migliaia.

Se esistesse Biomed Europa e avesse una comunicazione efficace, facilmente comprensibile, potrebbe contrastare le fake news su Covid-19 e vaccini?

Questa è una domanda molto importante. Credo che avrebbe un effetto psicologico significativo perché uno degli elementi della diffidenza nei confronti dei vaccini è il ruolo di Big Pharma, diffidenza che dal punto di vista scientifico non è giustificata, ma è assolutamente giustificata dal punto di vista delle scelte che queste imprese fanno. Quindi il togliere di mezzo l’aspetto Big Pharma e dire che questo è un vaccino “bene pubblico”, toglierebbe intanto un primo argomento. Inoltre, la politica della comunicazione potrebbe essere improntata alla più totale trasparenza. E cioè la formula precisa dei vaccini, in particolare dei vaccini mRNA non è nota, perché i brevetti, o meglio le domande di brevetto depositate, volutamente non contengono tutte le informazioni in modo da non dare ai concorrenti la possibilità di replicare. Quindi c’è un elemento di segreto commerciale, ma se ci fosse una struttura come Biomed Europa che afferma che questo è un vaccino “bene pubblico” e l’informazione viene resa pubblica nei minimi dettagli, messa su un sito… beh, questo sarebbe un secondo elemento di trasparenza e non si potrebbe più dire che non si sa cosa c’è dentro. Naturalmente non sono sicuro che questo risolva al 100% i problemi nel senso che se poi ci sono le persone che pensano che la terra sia piatta, che ci possiamo fare? Però questo è un problema anche di antropologia culturale, cioè sappiamo che c’è chi crede all’astrologia… almeno toglieremmo quella parte di dubbio che nasce dal sospetto verso Big Pharma e dal non saper cosa c’è dentro e dal timore che ci mettano il microchip. Almeno in parte questo sarebbe risolto dalla proposta che abbiamo fatto. 

La salute umana impatta con gli altri due grandi temi affrontati nel libro, soprattutto con il cambiamento climatico. Purtroppo, anche il macrotema del climate change e della transizione ecologica è ormai dominio di grandi imprese e di grandi corporazioni che cercano di difendere il loro mercato e di evolversi. Penso a Eni che è uscita con Eni Green Power e in contemporanea continua a essere quella che estraeva ed estrae petrolio. Da questo come potremo uscirne?

Intanto quello che lei ha detto è assolutamente vero. C’era anche un editoriale dell’Economist che diceva che alla COP26 di Glasgow erano presenti più lobbisti delle società multinazionali che delegati dei governi e ambientalisti. Tutti hanno parlato di Greta Thunberg, nessuno ha parlato del fatto che le grandi banche e i grandi fondi di investimento erano tutti lì perché fiutano il business. Qual è il business che fiutano? E’ quello sostanzialmente di mettere le mani sulle risorse che i governi metteranno in campo in particolare per la transizione energetica. Quindi, paradossalmente, più cresce la consapevolezza del tema del cambiamento climatico, più i governi si preparano a stanziare fondi e più si rischia di consolidare l’oligopolio delle società del settore Oil&Gas, ma anche del settore dell’automobile, etc. che si presenteranno come quelle più preparate per affrontare il tema. Perché in realtà mancano, o sono molto deboli, delle strutture pubbliche che invece affrontino il tema della conoscenza e delle innovazioni tecnologiche necessarie.

Ultimo grande tema è quello della governance dei dati, che va di pari passo con tutti gli altri. È difficile trovare dei dati pubblici resi disponibili in maniera corretta in Italia e in Europa: cosa bisognerebbe fare a livello europeo per renderli più accessibili?

Intanto avere le idee chiare sul fatto che l’oligopolio digitale è diventato quello più importante. Se prendiamo le prime dieci società del mondo, sette di queste, comprese due cinesi Alibaba e Tencent, sono società basate sostanzialmente sull’elaborazione dell’informazione digitale in vario modo. Ora la transizione nell’informazione riguarda fondamentalmente la produzione di big data. Cioè: anche quando non facciamo nulla, con i nostri smartphone generiamo dati. Basta che lo smartphone sia acceso, ci localizza in una cella e genera informazioni. La scala dell’informazione digitale oggi prodotta e potenzialmente accessibile è una scala completamente inedita per l’umanità, non abbiamo affatto idea di come governarla e come gestirla. È una prateria su cui l’oligopolio ha messo dei recinti completamente arbitrari. Noi banalmente produciamo dati che finiscono su Facebook, dati che finiscono nelle banche dati sanitarie e anche il nostro contatore elettronico di casa produce dati sul nostro consumo di elettricità secondo per secondo fornendo una specie di elettrocardiogramma della nostra vita elettrica. Ora tutti questi dati sono gestiti in maniera o estremamente frammentaria dal settore pubblico o dallo stesso privato. Il settore pubblico in alcuni casi li gestisce con la tecnologia usata nell’antico Egitto… viene mandata un ufficiale del censimento a chiedere “buongiorno lei quante galline ha?”, mentre gli oligopoli privati sono più veloci nell’appropriarsi di queste informazioni e nel costruirci sopra delle fortune economiche.
La proposta è di avere a livello europeo una piattaforma pubblica alternativa ai cloud e agli altri sistemi che oggi sono monopolizzati in primo luogo da Amazon: tutti lo conoscono per i pacchetti che consegna, ma il grande business di Amazon è il fatto che ha una quota dominante nel mercato dei cloud di dati. Noi in realtà non sappiamo assolutamente nulla su come le informazioni vengono messe a disposizione sulle piattaforme private. Quindi sarebbe necessario costruire un cloud pubblico europeo, basato anche su criteri etici di uso dell’informazione e di tutela delle informazioni che noi immettiamo, una grande piattaforma pubblica che gestisca nei modi eticamente e socialmente corretti le informazioni anche con meccanismi di vigilanza e di controllo. La tecnologia c’è, richiede investimenti importanti, ma c’è.

L’etica è forse una delle cose da cui ripartire una volta usciti dalla pandemia. Questi sono temi che a livello etico ci toccano in maniera profonda ed è giusto trattarli così. Il pubblico dovrebbe avere un ruolo sia a livello di salute umana, che di governance dei dati, che di climate change.

In realtà le cose sono connesse. Google sta pensando di investire fortemente nel settore farmaceutico perché le informazioni che noi generiamo possono anche profilarci dal punto di vista sanitario. Nel momento in cui io tenendo un FitBit genero informazioni sul mio stato di salute, dalla saturazione dell’ossigeno ai minuti che dormo, ai minuti di sonno rem, etc. Con Apple Watch posso anche fare un elettrocardiogramma in qualsiasi momento. Tutto questo finisce nella gestione dei sistemi da parte dei privati. Ma anche questioni relative al tema energetico sono generatori di informazioni. Quindi queste tre cose stanno veramente tutte e tre assieme e l’etica pubblica della gestione dell’informazione e della conoscenza è molto arretrata perché pensa a un altro mondo, non al mondo che ci sarà nei prossimi trent’anni, ma al mondo del secolo scorso.

E sono le tre sfide più importanti del presente e del futuro. Siamo a un bivio: se le affrontiamo in maniera corretta, bene, diversamente avremo un mondo sempre più diseguale.

Il lato ottimistico potrebbe affermare intanto che le conoscenze per gestire come bene pubblico questi temi ci sono. Nel mondo ci sono quasi otto milioni di ricercatori a tempo pieno compresi quelli delle scienze sociali, una persona ogni mille abitanti si occupa di ricerca a tempo pieno e la maggior parte di loro non è motivata dal profitto. Questo è un punto molto importante: mentre è stato costruito tutto un paradigma che dice che l’unico incentivo all’innovazione è il guadagno, milioni di persone producono conoscenza non per il guadagno, ma per il piacere di produrre conoscenza e per la loro reputazione. Questo vale sia per la produzione di conoscenza, ma anche per alcune attività di servizio pubblico, vediamo per esempio cosa sta succedendo negli ospedali oggi, se le terapie intensive o i pronto soccorso dovessero funzionare in base a ciò che c’è scritto sui contratti delle assunzioni si fermerebbe tutto. Ci sono persone che ci mettono l’anima.
Secondo me abbiamo le risorse sia di conoscenze che di capacità umane per affrontare questa crisi, quello che non abbiamo è la consapevolezza politica per tradurre queste potenzialità in movimenti e istituzioni nella direzione di un progresso sociale eticamente fondato su una visione dell’eguaglianza, o quanto meno dell’attenuazione della diseguaglianza, più accettabile di quella attuale. Ma le risorse ci sono.