Intervista a Donatella Albini, ginecologa, femminista, consigliera comunale a Brescia con delega alla Sanità.

La crisi pandemica impatta diversamente sugli uomini e sulle donne rendendo più evidenti discriminazioni e disuguaglianze economiche e sociali: dal tuo duplice punto di osservazione di medico e di amministratrice cosa puoi dirci in proposito?

Innanzitutto grazie. Sì, il mio punto di vista è davvero molto ampio perché ho fatto la ginecologa per molti anni in ambito ospedaliero esclusivamente pubblico, continuo a lavorare nei consultori e in più ho questa delega alla sanità nel mio Comune che, se prima era una sorta di delega per realizzare una connessione tra il  vario tessuto della società della cura (tutti i movimenti, le associazioni dei malati, ecc. – grandissima esperienza e grandissimi incontri), da marzo ha ovviamente voluto dire essere in pista ogni giorno per sanare piccoli e grandi problemi che,  soprattutto nella mia Regione, si sono presentati e si stanno ripresentando anche oggi, anche se in maniera un po’ meno drammatica, nella vita delle persone.

Inoltre, da circa tre anni insieme con altre due “visionarie” abbiamo creato il Centro di Studi e Informazione sulla Salute di Genere perché abbiamo pensato che la salute di genere è un tema che va declinato quotidianamente sulla vita delle persone e con grande cura, al di là della medicina di genere paludata di cui si parla anche nell’università – dico paludata non in maniera critica e discriminante, ma paludata perché è diventata materia.  Con questo progetto abbiamo messo in campo dei saperi femminili nell’ambito della medicina in un confronto con i cittadini e le cittadine con cui fino a marzo abbiamo fatto incontri mensili, ci siamo poi fermate per il Covid realizzando soltanto due incontri via web.  E’ stata un’esperienza di crescita continua importante che ha mosso qualcosa: la nostra università Statale, ad esempio, ha messo in campo un log, una sorta di luogo di cultura di genere dentro le istituzioni universitarie e si continuano a fare incontri, tra cui nel giugno scorso proprio uno su Covid e genere, che è stato molto seguito perché è questo un tema di cui ci si deve necessariamente occupare.  Ho voluto fare questa introduzione per presentarmi e per dire che non nasco da sola su un sapere dietro una scrivania, ma permanentemente sul campo, in una pratica esperienziale connaturata alla cultura di genere.

La questione di Covid e genere è una cosa che salta subito agli occhi. Le statistiche ci dicono che se è vero che le donne muoiono di meno di Covid – questo è un dato acclarato, se non con una parificazione delle curve dopo gli 85 anni – è anche vero che ammalano di più di Covid, cioè si infettano di più.  Questa è un po’ la prima osservazione che mi ha stupita, non come osservazione in sé, ma che fosse stata addirittura pubblicata sulle riviste internazionali perché mi sembrava un dato piuttosto scontato. Se pensiamo che quasi il 70% del personale sanitario è donna, quasi l’80% del personale delle strutture socio sanitarie RSA e RSD è donna, che la maggior parte delle lavoratrici dei supermercati è donna, che la maggioranza delle persone delle cooperative che lavorano negli ospedali e nelle RSA per le pulizie e la mensa sono donne mi pare che il dato fosse scontato e non ci fosse bisogno di pubblicarlo. L’averlo pubblicato, l’ha messo sotto gli occhi.

Se poi pensiamo anche al lockdown stretto di marzo-aprile in cui le donne erano chiuse in casa a lavorare -  quelle che potevano lavorare da casa -, accudendo contemporaneamente i figli che dovevano studiare, magari non avendo un computer per tutti, con qualche anziano non colpito dal virus che comunque era da seguire, è chiaro che si è scoperta una cosa che c’è sempre stata. Io vedo il Covid come un gesto che ha sollevato il telo per dimostrare quello che c’era: si è scoperto che le donne svolgono i lavori essenziali. Essenziali non tanto e solo per i bisogni quotidiani che ci sono, ma essenziali affinché la macchina della vita quotidiana di uomini e donne, bambini e bambine, anziani e anziane del nostro Paese cammini, perché se non c’è questa massa di donne che fa questi lavori essenziali il Paese non cammina.

Le donne, tra l’altro, erano le più esposte per cui si sono positivizzate di più. E anche se non si sa ancora bene perché la gravità della malattia da coronavirus sia più presente negli uomini che nelle donne, e ci sono in proposito varie ipotesi anche contraddittorie tra di loro, il dato è questo. E non è di poco conto. E’ da lì che bisogna partire: se le donne svolgono i lavori essenziali, significa che le donne hanno il dovere di avere un ruolo nel governo di queste situazioni, cosa che non è accaduta. Il comitato tecnico scientifico disposto a livello governativo era composto di soli uomini, ne è seguita una protesta e, bontà loro, hanno quindi inserito tre donne, ma noi sappiamo ad esempio che le prime ricercatrici dell’ospedale Spallanzani che hanno scoperto il virus erano donne, così come l’anestesista di Codogno che ha individuato il paziente 1 in Italia.

Per essere molto esplicita vi dico che io lavoro molto bene anche con chi è su opposti fronti politici: la direttrice socio sanitaria del mio ospedale pubblico non è sicuramente una figura di sinistra per ovvi motivi di nomina, però è una donna molto pragmatica. Vi faccio un esempio: in periodo di Covid è andata in un ospedale dove nessuno praticava l’interruzione di gravidanza e ha chiesto esplicitamente a me di andare perché c’era bisogno di praticarla. Anche sull’enorme problema che c’è ora sulle vaccinazioni antinfluenzali con lei c’è un rapporto diretto, molto diretto e molto pragmatico – serve questo, c’è questa necessità. Questo per dire che alla fine lo sguardo sulla vita vissuta delle persone è tipica dello sguardo politico femminile. Non sto parlando di un atteggiamento buonista o caritatevole, no: è un atteggiamento politico presente. Questo è il primo dato che mi interessa sollevare.

Anche l’altro dato che voglio evidenziare parte dalla vita vissuta in questo periodo. Soprattutto nel periodo di marzo-aprile ricevevo davvero tante telefonate. Erano figlie già uscite dalla loro famiglia d’origine, con compagni e figli, che nel periodo più buio della pandemia si sono trasferite a casa di genitori anziani pur di non farli ricoverare isolandosi con loro per quasi un mese, mi chiamavano perché mancavano le bombole di ossigeno e le loro situazioni rischiavano di precipitare da un momento con l’altro. Oppure era la mamma col bambino autistico che mi diceva di non farcela più. Perché l’altro grande tema poco affrontato riguarda i bambini con disabilità mentale di vario ordine e grado che hanno patito fuor di misura l’isolamento e le loro madri sono rimaste sole.

Un’indagine IPSOS dice che il 70% delle donne si è sentita sola, non appoggiata neanche dal marito che avevano in casa. In questo grande lavoro che hanno fatto di accudimento a domicilio, di governo della vita quotidiana a domicilio, le donne si sono sentite sole, senza la possibilità di condividere questa fatica che era forse meno fisica perché non dovevano andare avanti e indietro da casa -  almeno quelle che non lavoravano fuori - però era assolutamente pesante sul piano mentale. 

Un altro esempio che mi ha veramente commosso è una donna di cinquanta- sessanta anni, che viveva da sola con il padre ultra novantenne che stava bene, però essendo lei una trapiantata quindi esposta all’infezione, anche se chiusa in casa voleva fare un tampone per preservare il padre. Il tampone non le è stato fatto nonostante le sollecitazioni – sapete che in Lombardia non facevano i tamponi a nessuno a marzo-aprile -  e loro han vissuto separati in casa per un mese. Pensate anche a questa difficoltà terribile di non parlare, di non condividere il pasto, di non sederti davanti alla televisione a guardare un film, di non condividere le banalità quotidiane. Ecco questo virus ha svelato anche questo: quanto le banalità che noi consideriamo scontate del bene vivere quotidiano in realtà non sono così banali, ma sono parte importante del nostro modo di vivere.

E poi ci sono le donne che lavoravano nelle RSA. Qualcuna mi ha detto “dottoressa qui c’è odore di morte” oppure “io ho la febbre, le mie colleghe hanno la febbre ci obbligano ad andare a lavorare perché altrimenti non sanno come accudire i pazienti. Io vado a lavorare, però non torno più a casa perché cerco di preservare i miei”. Pensate alla dedizione di queste persone, ma non è una dedizione generosa e caritatevole, no, è un’assoluta, lucida consapevolezza del ruolo. E questa cosa secondo me è fondamentale e poco viene fuori. E finisco.

Pensate alla questione della violenza di genere. E’ appena passato il 25 novembre, ho fatto in questi giorni un webinar sulla violenza di genere per personale degli studi dentistici perché dicevano “noi vediamo le botte sulla faccia. Cosa dobbiamo fare?”. Guardando la letteratura recente, l’Istat ha pubblicato a maggio un dato sui numeri delle telefonate al 1522 (numero breve nazionale per la violenza di genere, non tiene in considerazione le chiamate ai centri antiviolenza, però è indicativo): sono aumentate del 70%. Questo vuol dire che le donne chiuse in casa oppure che lavoravano e poi si chiudevano in casa in isolamento con il loro violentatore hanno subito molte più violenze fisiche, mentali, economiche… Devo dire che in questo noi a Brescia abbiamo brillato perché all’inizio di aprile, poco prima di Pasqua, in un paese della bassa abbastanza vicino alla città, è successo di un uomo che è tornato a casa poco prima di cena e ha sgozzato la moglie con un coltello davanti ai figli. La figlia di quindici anni ha coperto gli occhi dei fratellini piccoli e li ha portati via, poi è uscita. La prima persona che ha incontrato fuori di casa era il sindaco del paese che abitava accanto e gli ha detto “Il papà ha ucciso la mamma”. Ogni volta che racconto questa cosa mi viene la pelle d’oca, penso a questa ragazzina e al potente gesto materno che ha fatto, pur così giovane, con i suoi fratellini, ma non so che cosa gli è rimasto dentro, non so che futuro avrà perché poi naturalmente di queste storie si perdono le tracce. Ma una persona che sgozza la moglie davanti ai figli… vuol dire che questa donna ha convissuto nel silenzio per mesi con una persona così. Questo è l’altro grande tema. Però anche qui il Covid ha svelato qualcosa che c’era. E secondo me siamo ancora lì.

Le donne straniere, le donne migranti in tutto questo?

Le donne straniere e migranti in realtà come numeri di esposizione al virus sono molto meno colpite perché vivono in comunità chiuse e non escono di casa. Io ho sempre fatto i consultori in questo periodo, faccio un consultorio al confine tra Bergamo e Brescia, quindi in prima linea, la maggior parte delle gravide che vengono sono straniere. Dico straniere e mi dispiace dirlo, in realtà le etnie sono tante perché provengono dall’Africa, dall’India, dal Bangladesh, dal Pakistan, provengono dall’Est. Mi dispiace dire straniere perché è come se in qualche modo si negasse la loro appartenenza. Arrivavano molto impaurite, perché le donne straniere sono molto impaurite da questa cosa, però sono sempre venute. Io cercavo di capire, laddove la lingua te lo consentiva, perché sapete che nei consultori i mediatori non ci sono, per cui si usa molto il linguaggio del corpo, poi scruti l’atteggiamento della donna, cerchi di capire ecchimosi presenti sul corpo… Però a parte la paura loro stavano barricate in casa, spesso con gli uomini che però continuavano a lavorare perché in genere gli uomini, soprattutto di queste etnie qui lavorano con gli animali. Io di grandi problemi non ne ho avuti. Però anche lì statisticamente sapete che il tasso di violenza sulle donne straniere è uguale a quello sulle donne italiane, non c’è nessuna differenza perché è imprevedibile, è trasversale. Il fatto però di avere il servizio aperto, di essere accudite è stato importante. Vi dirò una cosa che nessuno mai dice parlando dei sanitari, penso che sia successo in tutta Italia, ma è l’unico dato di eccellenza della Lombardia che c’è stato: le donne venivano dimesse subito dopo il parto il prima possibile per evitare eventuali contaminazioni da Covid, ma le ostetriche andavano a casa a visitarle tutte. Pensate quanto poco si è parlato delle ostetriche, che invece dalla prima giornata andavano a casa a visitare le donne dimesse, per vedere se andava tutto bene. Sono sempre andate a casa. Questo è un dato da segnalare perché ha voluto dire non abbandonarle, individuare eventuali problemi di melanconia o di depressione post parto. Nella mia città è stato attivato anche un SOS psicologico, che adesso riprenderà. Sulle donne straniere c’è questa attenzione che non è facile e non è scontata. Loro sono molto resistenti, bisogna agganciarle nei servizi permanenti tipo i consultori perché allora vuol dire che ti vedi ogni quindici giorni o tra una settimana. Questo è importante, ma ci tengo a sottolineare ancora che le ostetriche hanno svolto un lavoro prezioso. Non mi stancherò mai di ringraziarle e questa cosa va detta perché non la si dice mai, invece è preziosissima.

Quindi gli effetti sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne quali sono stati? Cioè le donne hanno trovato i servizi aperti, l’interruzione volontaria di gravidanza poteva essere fatta? Che tipo di impatto c’è stato su questo?

Sui diritti sessuali e riproduttivi e sull’interruzione volontaria di gravidanza da noi non c’è mai stato un problema. Tenevo monitorata la situazione con i miei colleghi. Naturalmente sono servizi che fa solo l’ospedale pubblico… Questa è una cosa che mi fa arrabbiare molto, scusate la parentesi. Continuiamo a dire che la sanità privata è entrata. Certo che è entrata, però è entrata quei dieci giorni dopo perché prima hanno contrattualizzato quello che dovevano fare durante l’emergenza. E poi non applicano i LEA, l’interruzione volontaria di gravidanza fa parte dei LEA e quindi non la applicano. Negli ospedali pubblici non c’è stato un rallentamento della prestazione sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il problema da noi è che solo un ospedale applica l’aborto farmacologico che in periodo di Covid è il metodo più sicuro. Recentemente Non Una di Meno mi ha chiesto dei dati e ho fatto un giro recente. Li ho monitorati a marzo-aprile e non ci sono stati problemi, però non c’era, se non nell’ospedale pubblico, l’aborto farmacologico. Adesso ho rifatto un giro dopo l’allargamento alle nove settimane come indicazione del Ministero della Salute di giugno e in realtà l’ospedale pubblico della città si stava già muovendo, gli ospedali della periferia uno no, non fa neppure l’aborto farmacologico, l’altro non ho ancora avuto risposta, comunque i numeri grandi sono all’ospedale pubblico della città. Mi è stato detto che si sono messi subito all’opera per fare il protocollo per le nove settimane, ma dalla direzione è arrivata l’istruzione di aspettare le linee guida regionali che secondo me vuol dire mai, perché le linee guida regionali sulla 194 in Lombardia non arriveranno mai. La seconda cosa è che sempre in questo protocollo c’era l’indicazione di somministrare la Ru486 nei consultori, che mi sembra una cosa civile. L’altra cosa che è comunque andata avanti è l’applicazione delle spirali, la prescrizione dei contraccettivi. Su questa a cosa a marzo/aprile in Lombardia si diceva “solo le prestazioni urgenti, cioè le gravide”. Io personalmente credo che una prestazione urgente sia anche la contraccezione perché se no finisci nella 194. Nei consultori pubblici, obtorto collo con una sorta di disobbedienza civile e pratica costante, penso che questa cosa sia andata avanti. Credo che nei consultori privati accreditati questa cosa non abbia camminato. Tenete conto che nella mia città a fronte di sette consultori ce ne sono tre pubblici e tutti gli altri sono privati accreditati. Due sono gestiti dall’istituto privato accreditato di matrice cattolica e uno addirittura si chiama “diocesano” e potete capire che roba è. Questo è un altro dato. Noi abbiamo un grande impegno non solo clinico, scientifico, di proposizione da parte dei consultori pubblici con validissime persone dentro, soprattutto la parte ostetrica, ma non solo, e abbiamo dei non piccoli problemi con il privato accreditato. Vi faccio l’esempio della spirale c’è questa idea che la spirale va inserita solo sotto guida ecografica… Forse io sono novecentesca, ma se hai un minimo di pratica clinica la sai inserire anche senza ecografia a meno che non si è di fronte a un caso particolare. Mediamente c’è anche il tuo sapere clinico… ma pare che questa cosa non ci sia più. Molte colleghe giovani non se la sentono. Faccio solo un cenno alla formazione pratica universitaria e specialistica: mentre prima era una generazione di ostetriche e ginecologhe/ghi che sapevano lavorare con le mani, sapevano guardare e avevano una grande intuizione clinica, adesso la prima cosa che viene insegnata è l’utilizzo della macchina, ma credo che non esista pratica come quella ostetrico-ginecologica, soprattutto con donne straniere, in cui lo sguardo e il tocco della mano contano molto di più. Tornando alla domanda sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne, da noi grandi problemi non ci sono stati, perché le donne che lavorano nei consultori, la direttrice e la referente ostetrica non hanno mollato la presa. Lo stesso negli ospedali per la 194 fatto salvo che c’era questa incongruenza clinica di non spingere sulla Ru486 che era la cosa più logica da fare.

Ma questo è un dato che riguarda la città di Brescia o anche la provincia?

Sull’applicazione della 194 chirurgica anche della provincia, degli ospedali pubblici s’intende!

Anche in un ospedale Covid era quindi possibile accedere per un IVG?

Assolutamente sì, Brescia è addirittura hub covid per l’ostetricia per la Lombardia orientale. Ma anche qui c’è una grande incongruenza: è di marzo la decisione di dedicare una parte dell’ospedale, la mitica Scala 4, per farci un reparto Covid.  La Scala 4 è stata inaugurata il 4 aprile, proprio quando l’università e alcuni imprenditori si erano resi disponibili a fare un ospedale temporaneo in un campo sportivo dell’università adiacente all’ospedale, naturalmente la Regione ha detto di no. La mitica Scala 4 a tutt’oggi non è terminata, pare sia pronta nei prossimi giorni. Tutto questo ovviamente ha voluto dire sovraccaricare l’ospedale - ma non è questo che volevo dire – quello che mi preme rimarcare invece è che in questa Scala 4 dedicata al Covid si son dimenticati di fare la sala parto, per cui pare che ci saranno dei reparti Covid nella Scala 4 e poi staccato in un’altra area dell’ospedale l’hub covid dell’ostetricia. Ricordo che quando ci fu l’HIV, una trentina di anni fa, andavamo al reparto infettivi ad assistere ai parti e a fare i tagli cesarei per le donne HIV positive. Era una cosa normale, non era strano, le donne positive venivano seguite da noi agli infettivi, ma per il Covid non hanno usato la stessa logica. C’è qualcosa che non gira: o fai un settore Covid o non lo fai.

Una domanda che esula un po’ dal contesto di genere, ma che mi preme farti: in una realtà così duramente colpita dalla pandemia come la provincia di Brescia, area tra l’altro esposta ad altissimi livelli di inquinamento, che tipo di consapevolezza hanno maturato le persone, che strumenti hanno avuto per metabolizzare quanto è successo?

Questa è una domanda che mi pongo anch’io costantemente. Nel periodo del lockdown duro, marzo aprile, duro perché eravamo chiusi in casa e perché qui tutti abbiamo avuto un lutto e positivi vari che conoscevamo, secondo me c’era molta solidarietà e condivisione anche se erano saltati tutti i riti collettivi di elaborazione del lutto e della sofferenza. L’immagine mediatica dei camion dell’esercito con le bare di Bergamo – sicuramente drammatica, ma secondo me anche un po’ costruita – noi non l’abbiamo avuta. Ma nel mese di maggio, per coloro che avevano accettato la cremazione, lasciavamo le urne e abbiamo fatto mille funerali con tanto di rito. Non è stata una scena di acclamazione mediatica come quella dei camion che andavano, però il dolore era tanto e il dolore è stato risvegliato con questi riti finali.

Sull’inquinamento torno a ripetere quello che ho detto fino adesso: il Covid ha svelato ancora una volta quello che c’era. L’inquinamento atmosferico persistente che c’è in tutta la pianura padana, comprensivo degli sversamenti dei liquami degli allevamenti intensivi e dell’ossido di azoto che questi producono, è causa di gravi problemi broncopneumologici e cardiovascolari. Le persone con questi problemi, o comunque residenti in zone altamente inquinate, sono maggiormente esposte al rischio di malattie importanti ed è stato così anche per il coronavirus. C’è qualcuno però che ostinatamente nega questo legame: in una commissione consiliare in cui, tra gli altri temi, su richiesta della destra si parlava di riaprire in città le ZTL per far girare il commercio, di fronte ai dati di cui vi sto parlando qualcuno ha affermato che vanno messi sui due piatti della bilancia quanti sono i morti così e quanti i suicidi degli imprenditori. E vedere quello che pesa di più.  Il sentimento diffuso è anche questo.

Dopo il liberi tutti estivo, la solidarietà e la vicinanza di marzo e aprile sono venute meno e ora la consapevolezza di quanto sta succedendo è decisamente minore. Ci sono tre fasce di popolazione: quella che cerca di vivere tutti i giorni la sua vita in maniera consapevole adottando tutti gli accorgimenti necessari a proteggere se stessa e gli altri, con atteggiamento comunque disponibile e generoso. C’è poi la fascia che dice di essere stufa di questa cosa, che vuole vivere “liberamente” la propria vita, che cava la mascherina perché non serve a nulla, che avvalla la tesi che il Covid è una guerra batteriologica cinese… In questa fascia ci sono anche esercenti e commercianti, che premono perché cessi ogni lockdown perché dicono di non farcela. Io e il presidente dell’ordine dei medici di Brescia continuiamo a sostenere che bisognerebbe restare zona rossa almeno fino a gennaio, mi trovo in conflitto aperto col mio sindaco che, come altri, spinge perché si passi a zona arancione. La terza fascia è quella di chi è impegnata a vario titolo nella sanità e che teme fortemente che un allentamento delle misure nel periodo delle feste ci porti poi a blindarci in zone rosse a gennaio e febbraio quando anche l’influenza farà la sua comparsa e renderà più complicata una situazione già drammatica.  Non so come sia in altre regioni, ma noi in Lombardia siamo in una condizione in cui i tracciamenti sono saltati, non ci sono, vi faccio un esempio banale. Come Comune ogni giorno abbiamo i nomi degli isolamenti obbligatori e fiduciari per capire se ci sono persone da seguire, in crisi, sole e bisognose di assistenza. Bene, rispetto al numero di positivi come tracciamento degli isolamenti ne abbiamo la metà. Ma se gli statistici mi dicono che per ogni positivo ci sono almeno cinque contatti qualcosa è saltato. Ats è messa ancora peggio perché registra il positivo con una settimana di ritardo e tanto meno i suoi contatti. Quindi i dati che abbiamo sui positivi e sui contatti non sono veritieri, realmente non sappiamo quanta gente asintomatica e positiva c’è in giro e se il 3 dicembre riapriamo tutto non è difficile immaginare cosa può succedere. Abbiamo perso tempo e sono stati fatti grossi errori: abbiamo avuto un momento di relativa calma da giugno ad agosto, in quel periodo le persone andavano in qualche modo informate e rese consapevoli con una sorta di pedagogia al contrario su un piano di misure di intervento da attuare a seconda dell’incedere del contagio del tipo se aumentano i positivi del 10% bisogna fare questo tipo di manovra di chiusura, se aumenta del 20% quest’altro, se aumenta del 30%… In questo modo avremmo avuto una programmazione delle chiusure, degli eventuali posti letto in aggiunta, del personale necessario e invece siamo andati in vacanza tutti quanti, abbiamo abbassato la soglia di tensione, non c’è stata questa programmazione e dalla sera alla mattina ci siam trovati a diventare zona rossa o arancione con informazioni spesso contraddittorie che hanno solo generato rabbia e confusione. E questo non deve accadere. Il governo della sanità deve essere centrale perché abbiamo visto che le regioni, anche quando va bene, sono uno disastro, ma deve essere fatto con informazioni precise, i dati reali vanno comunicati, noi non sappiamo chi dei positivi è asintomatico, sintomatico, ricoverato, i dati degli ospedali sembrano il segreto di Santa Rosalia! E chiudo dicendo che in Lombardia non è cambiato nulla: a Brescia rispetto alla prima fase abbiamo solo un centro prelievi in più e qualche USCA che lavora sul territorio, ma è l’unica cosa, la rete di medicina territoriale si è ridotta a questo.