Intervista a Paolo Barcella, docente di Storia contemporanea all’Università di Bergamo che ha partecipato ad alcuni progetti sull’elaborazione del lutto e il recupero della memoria.

Le province di Bergamo e Brescia, tra le più colpite nella fase 1 dell’epidemia, sono zone in cui è diffuso da sempre il mantra del lavoro a tutti i costi, dove tra l’altro la possibilità di trovare facilmente impiego ha indotto, e continua a indurre, molti ragazzi all’abbandono scolastico. Abbiamo visto che le fabbriche non hanno chiuso, che la logica del profitto ha impedito la creazione della zona rossa ad Alzano e Nembro: che tipo di sensibilità e di consapevolezza hanno elaborato le persone così duramente colpite in questo contesto? Quanto domina il fatalismo – è successo perché doveva succedere – rispetto alla presa di coscienza del fatto che quel sistema basato sul pensiero unico del mercato ci ha portati al disastro?

Considerate le sue ricadute sul tempo presente, mi permetto di prendere la questione un po’ da lontano. Le province lombarde, Bergamo più di tutte, sono sempre ricordate e associate alla presunta potente etica del lavoro che vi sarebbe diffusa; ovvero, alla tendenza dei loro abitanti a considerare il lavoro un valore di per sé, al di là del reddito e delle condizioni. In questa visione c’è un intreccio di stereotipi, di rappresentazioni, di autorappresentazioni e, infine, qualche elemento di verità. Intendo dire che i bergamaschi e i bresciani non sono certo gli unici a lavorare, o a dare molta importanza al lavoro, in Italia o nel mondo: e non solo, come alcuni pensano, nel solo mondo “settentrionale” ed euroamericano. Anzi, in realtà, è il contrario: i paesi con le settimane lavorative più lunghe e più pesanti si trovano tra quelli in via di sviluppo – nell’America Latina o nel Sud Est asiatico –, dove si lavora in media più di 48 ore settimanali per un salario da fame, non certo per diventare ricchi. Tuttavia, gli abitanti delle province lombarde vengono raccontati, e amano raccontarsi, come i “campioni del lavoro”, riconducendo tale caratteristica a consolidati fattori di ordine culturale e a una sorta di predisposizione antropologica, narrata con orgoglio. Ma così non è, e gli elementi di verità presenti nel discorso si intendono solo partendo dalla storia di quei territori, di quegli ambienti, delle loro configurazioni sociali. Se guardiamo alla Bergamasca, per esempio, troviamo una regione che fino al secondo dopoguerra era caratterizzata da una grande povertà e da una forte tendenza alla migrazione e alla periodica mobilità da lavoro in settori a qualificazione medio bassa, dove una resa economica importante era garantita solo dall’estrema intensificazione del lavoro. Talvolta i migranti stagionali erano impiegati in mansioni che riconoscevano un reddito prestabilito e, secondo la logica del cottimo, più rapidamente si concludeva il lavoro, massima era la resa e prima si poteva rientrare a casa. Per esempio, i tagliatori di fieno della Val Cavallina divennero proverbiali nel Canton Ticino per la loro velocità d’esecuzione, tanto che lì è rimasto il detto “lavorare come un bergamasco”. Ma la loro velocità non era declinazione di alcuna moralità professionale: semplicemente, più rapido era il taglio, prima potevano tornare in Bergamasca a fare altro. Contesti di questo genere, caratterizzati da alta disoccupazione e povertà, conoscevano anche un basso tasso di sindacalizzazione e di politicizzazione in senso socialista, da ricondurre in parte al clericalismo locale, in parte a fattori di mentalità come un certo fatalismo. Quando, dopo la metà degli anni Cinquanta, il boom economico cambiò volto al paese, anche le aree rurali lombarde vennero coinvolte, conoscendo una potente industrializzazione ed espansione economica: per la prima volta, soprattutto grazie alle conquiste salariali generalizzate dalle lotte operaie degli anni Sessanta, anche qui si lavorava tanto, ma non solo per sopravvivere. Era possibile comprare una casa, accumulare reddito e ricchezza. Il movimento operaio locale, nelle grandi fabbriche come la Dalmine, crebbe e riuscì persino a portare avanti lotte per le condizioni di salute in fabbrica. Fu soprattutto nella provincia di Bergamo che, per le ragioni descritte sopra, l’intreccio tra caratteri storici, nuovi processi e nuove opportunità accentuò comportamenti alla base del consolidamento delle rappresentazioni relative all’etica del lavoro: infatti, negli anni Cinquanta e Sessanta quella popolazione in fuga dalle campagne, mediamente poco scolarizzata e con trascorsi di povertà generalizzati scoprì che, lavorando molto nell’industria, nell’artigianato e nell’edilizia, poteva ora arricchirsi. Avviare un figlio al lavoro come piastrellista, elettricista, idraulico o caldaista conveniva economicamente più che mandarlo a scuola o all’università. Anche per questo la Bergamasca è una provincia dove l’università arrivò tardi, soprattutto per quanto riguarda discipline umanistiche che orientassero verso l’insegnamento scolastico. Tanto che Bergamo importò una massa di insegnanti dalla altre province italiane, perché pochissimi bergamaschi erano disposti a mantenere le figlie e i figli fino alla fine dell’università nella prospettiva di un salario da pubblico impiego, ridicolo se paragonato alla resa di un mestiere in azienda con possibilità di carriera, o ai ricavi di un imbianchino o di un idraulico, magari abile a gestire il “nero” e avviato al lavoro dopo la terza media. Processi analoghi si sono conosciuti in altre vallate o regioni lombarde e hanno prodotto un’ideologia del lavoro, con una sua vita autonoma, che ha notevoli effetti collaterali rispetto alla ricchezza. Anzitutto questo stato di cose consolida una visione della realtà secondo la quale ogni problema parrebbe dover essere risolto con approccio pragmatico e attraverso il lavoro, inteso in termini “concreti”: la riflessione e l’analisi vengono da molti degradate a funzioni del tempo libero, quando non a perdite di tempo. In secondo luogo, anche in ragione delle aspettative e delle pressioni sociali, è diffusa la tendenza a collocare il lavoro al vertice delle gerarchie valoriali personali, fino a quando traumi sanitari o familiari sopraggiungano. Inoltre, in un simile brodo di coltura viene ipertrofizzato il ruolo della responsabilità individuale e si rafforza una visione dell’insuccesso come colpa personale. La catastrofe che si è scatenata a marzo e aprile ha avuto proprio per questo un effetto devastante. Il Covid-19, infatti, non poteva essere affrontato con un mix di lavoro e di pragmatismo, quindi un’intera provincia ha sperimentato anzitutto impotenza e disorientamento. L’ideologia del lavoro ha agito comunque, favorendo la diffusione di slogan come il testosteronico “mòla mìa”, ripreso dai giornali e diventato anche titolo di un documentario dedicato da Rai Uno alla Valle Seriana. Sotto lo slogan, però, la gente moriva, stava in casa e… c’era poco di concreto da fare, a parte sperare che tutto passasse, come un incubo terribile. Dopodiché, un tessuto socioeconomico di questo genere non appare certo propenso a immaginare la chiusura delle sue attività produttive a scopo precauzionale. Prima ti ammali e poi ti curi, si dice: inutile fasciarsi la testa prima del tempo! Quindi certo: gli industriali di Nembro e di Alzano Lombardo non volevano chiudere, la stessa cosa può dirsi per la stragrande maggioranza degli autonomi e degli artigiani, ma anche molti salariati la pensavano così. L’ideologia del lavoro non ha aiutato i più a valutare le fasi della pandemia razionalmente e ha contribuito a separare la percezione della strage in atto dalla sua realtà, alimentando le più strampalate e bizzarre interpretazioni. Infine, molte donne e molti uomini intrisi di quell’ideologia si sono trovati disorientati nell’impotenza provata di fronte al lutto, al collasso, alla percezione della possibile fine del proprio mondo economico e personale. Del resto, là dove la parola e la riflessione non vengono privilegiate a vantaggio degli approcci pragmatici, la metabolizzazione del lutto parte con un bel fardello sulle spalle e le scorie mortuarie sono destinate a rimanere in circolo molto a lungo.

La mancanza di un’elaborazione collettiva del lutto, confinato nella dimensione individuale e vissuto con una separazione non solo dalla vita, ma dalla morte stessa a cui non è stata data nemmeno la dignità del rito funebre, ha impedito anche una riflessione collettiva su questa tragedia: quanto è concreto a questo punto il rischio di una rimozione di massa di quanto accaduto, complice il desiderio di ripartire, di tornare alla “normalità”?

Le comunità più colpite hanno pensato cerimonie e attività per coinvolgere soprattutto le giovani generazioni, affinché recuperassero le memorie degli anziani localmente decimati dal Covid-19. Io stesso ho preso parte ad alcune attività tra Alzano Lombardo e Nembro, ma, ai primi di ottobre, tutto è stato sospeso e si è ricaduti, almeno in parte, nell’incubo. Siamo stati ricongelati, per così dire. Certo, la seconda ondata sta avendo caratteristiche molto diverse dalla prima, la città non appare sotto assedio come in primavera, non si sentono ambulanze ogni 7/8 minuti come nella devastante prima decade di marzo, però i contagi sono risaliti anche qui, siamo confinati e le notizie sono gravide dei fantasmi di malattia e di morte conosciuti pochi mesi fa. Non è questo un momento in cui si possa pensare ad azioni collettive per l’elaborazione del lutto. Se ne dovrà riparlare quando tutto sarà davvero finito. Nel frattempo, molte persone non hanno retto, o hanno retto con molta fatica, dovendo ricorrere a supporti psicoterapeutici o psichiatrici. Anche questi, però, non sono i benvenuti in ambienti socio-culturalmente connotati nel modo che ho descritto qui sopra. Ricorrere alla psicoterapia o alla psicoanalisi è per molti una vergogna, perché sono radicati stereotipi e concezioni distorte su queste pratiche, è diffusa la visione dell’uomo che basta a se stesso e che, nei momenti di difficoltà, risolve tutto con l’impegno o, magari, con l’autoanalisi. La psichiatria, nella misura in cui scarica la responsabilità del fallimento o dell’insuccesso su disfunzioni organiche e somministra farmaci invece di parole che responsabilizzino rispetto ai propri limiti reali ha già vita più facile, perché soggettivamente è più accettabile. La voglia di rimuovere è certo tanta come, giustamente, quella di ripartire e di avere la propria vita “normale”: persino quando quella vita non sembrava un granché, fino al febbraio 2020, ma per la quale oggi la maggioranza delle persone sottoscriverebbe senza esitazione. A forza di rimuovere c’è pure chi approda alla negazione della reale rilevanza del fenomeno Covid-19, sulla base delle più varie riletture e interpretazioni, che in genere volgarizzano punti alti già tragicamente bassi, come gli scritti di Agamben e di Fusaro. Meno di tutto, intorno a me, vedo ciò che ritengo davvero indispensabile e cioè la voglia di interrogarsi sulle responsabilità sistemiche di quanto stiamo vivendo, mettendo in discussione i nostri standard di vita e i nostri modi di produzione, di consumo e di trasporto, cioè i fattori strutturali che hanno reso possibile la pandemia da Covid-19. Non dimentichiamolo: questa pandemia non è una crisi estrinseca al nostro sistema, ma una crisi originata da un fattore biologico, un virus, che si è diffuso nel mondo e ha colpito in certi luoghi con violenza grazie alle reti e alle ali dell’antropocene capitalistico.

La lotta alla pandemia è necessariamente una lotta per un mondo diverso a partire da un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva diversa. Quali indicazioni possiamo trarre da questa esperienza per darci una prospettiva di futuro?

Credo che dovremmo partire da questo trauma per darci strumenti all’altezza di una presa di coscienza dei limiti imposti dalla terra all’intervento e all’azione umana, oltre che all’altezza di una messa in discussione del nostro modo di produzione, di consumo e di trasporto che, sempre più intensamente, evidenzia di non essere sostenibile già nel breve periodo. Anche senza Covid-19 si dovrebbe comprendere che 8 miliardi di donne e di uomini non possono sperare di consumare le risorse idriche ed ecologiche di un cittadino euroamericano medio, senza devastare equilibri ecologici e climatici, con tutti gli spostamenti di forme viventi che conseguiranno, non pacificamente. Il Covid-19 ha aggiunto su questo un carico pesante, che potrebbe trasformarsi in un utile paio di occhiali per aiutarci a capire. Ma anche no.