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La medicina territoriale in tempi di pandemia - Intervista a Massimo Miglietta, medico di medicina generale in Piemonte
Riportiamo l’intervista a un medico di medicina generale sull’esperienza in era Covid.
Le drammatiche cronache quotidiane hanno dimostrato che tra le figure professionali sanitarie che maggiormente hanno dovuto operare in condizione di grave rischio per la loro incolumità si trovano i medici di medicina generale. Quale è stato il loro ruolo nell’affrontare la pandemia?
Innanzitutto occorre sottolineare che la medicina generale in Italia presenta una forte disomogeneità territoriale (realtà rurali, piccole cittadine, paesi, grandi città…) accanto alla quale si inserisce una altrettanto forte disomogeneità organizzativa. Sono ancora troppo pochi i casi in cui i medici di medicina generale operano con un lavoro di gruppo, con una organizzazione delle visite in studio, con differenziazione delle prestazioni: chi un’organizzazione se l’era già data ha avuto più strumenti per affrontare il periodo pandemico e per adeguare la propria attività alle esigenze imposte dall’emergenza.
La gestione clinica della pandemia è stata sicuramente carente a livello territoriale perché sono mancati protocolli sicuri: nelle prime settimane non sono stati distribuiti sistemi di protezione adeguati per poter affrontare le visite in sicurezza, non c’è stata la possibilità per i medici di medicina generale di prescrivere e avere in tempi rapidi i tamponi in modo da poter circoscrivere la diffusione del virus. Anche l’isolamento familiare ha avuto conseguenze gravi e un forte impatto sanitario perché ha generato il contagio di tutti i membri della famiglia incidendo moltissimo sulla mortalità.
Detto questo, sia i medici che gli assistiti nel periodo pandemico hanno imparato a utilizzare maggiormente strumenti che già esistevano, come la prescrizione a distanza, la possibilità di avere la ricetta dematerializzata senza affollare gli ambulatori con le sale d’attesa brulicanti di gente in attesa della prescrizione. È stata adottata la prassi della prenotazione ambulatoriale anche da quei medici più restii a farlo e quella che poteva sembrare una forzatura legata al periodo pandemico si è in realtà rivelata uno strumento utile da utilizzare per migliorare e ottimizzare per tutti il servizio di medicina generale. Si è ricorsi molto di più alla prescrizione attraverso richieste telefoniche, o tramite mail o messaggi; si è diffuso moltissimo l’uso di whatsapp anche per l’invio di immagini o delle ricette stesse che l’assistito spediva poi direttamente in farmacia. In questo modo si è cercato di ridurre la pressione fisica sugli ambulatori e anche persone che non avevano dimestichezza con sistemi di questo genere si sono attrezzate anche ricorrendo a servizi che sono stati messi in atto dal volontariato per il ricevimento delle ricette e la consegna dei farmaci a domicilio.
Alla luce di quanto è emerso nel periodo pandemico, cosa serve quindi alla medicina del territorio?
La sfida è ora quella di ribaltare un sistema che si è rivelato efficace nel corso della pandemia in una condizione di “normalità” attuando modelli stabili per tutti: la prescrizione a distanza, il contatto a distanza non ostacolano, anzi dovrebbero agevolare la relazione stabile, assolutamente necessaria per i pazienti cronici in condizioni di non trasportabilità o di difficoltà a raggiungere l’ambulatorio. Un’altra indicazione avuta nel periodo pandemico che può essere utile in prospettiva è la necessità di una maggiore responsabilizzazione del paziente per quanto riguarda la sua condizione patologica anche attraverso la fornitura di strumenti che possano aiutarlo a monitorare (o meglio automonitorare) la sua situazione riferendo al medico i dati acquisiti. Parliamo di strumenti che possono monitorare la pressione arteriosa, il battito cardiaco, alcune prestazioni di esami che possono essere effettuati a domicilio tramite l’accesso di personale, la trasmissione o anche la refertazione di alcuni dati a distanza. Degli esperimenti in questo senso sono stati fatti durante l’emergenza con la saturazione dell’ossigeno rilevata a domicilio da personale addestrato, che riferiva i dati al medico curante per prendere decisioni in merito al trattamento domiciliare o all’ospedalizzazione quando la saturazione tendeva a precipitare. Ma ogni discorso di prospettiva si scontra con questioni normative di scarsa incentivazione della medicina generale, con la mancanza di strumenti adatti e, in parte, con la mentalità sia dei pazienti, che però sono sicuramente disponibili a nuovi tipi di assistenza se questi portano evidentemente un vantaggio, ma anche e soprattutto di tutta la classe medica del territorio nel suo complesso che a fatica introduce elementi di novità di questo tipo perché c’è ancora tradizionalmente un aspetto legato più alla quantità delle prestazioni effettuate che alla qualità della selezione delle prestazioni stesse. Una cosa che l’esperienza dell’infezione da coronavirus ha sicuramente introdotto, soprattutto nel periodo di lockdown con la necessità di differenziare le prestazioni, è stata l’immissione di gruppi di giovani medici in gran parte già addestrati alla professione della medicina generale, che si sono spesi e sperimentati in maniera molto valida cambiando radicalmente il panorama delle prime settimane e quelle successive nell’approccio domiciliare del paziente malato. Si tratta di unità chiamate USCA, introdotte in parecchie regioni, formate da personale medico dotato finalmente dei sistemi di protezione adeguati, formati alla terapia domiciliare dei pazienti positivi che hanno collaborato in maniera molto efficace e diffusa coi medici curanti, integrando la visita effettuata con le conoscenze del medico di medicina generale per arrivare all’intervento più adatto. L’inserimento nella medicina generale di forze nuove, di metodologie più moderne, di una formazione molto più adeguata di quella che era un decennio fa del medico che sceglieva di fare questa professione, potrebbe essere un modello per esercitare la professione in maniera non più individualista, ma in modo integrato. Riassumendo possiamo dire che alla medicina del territorio serve un maggior utilizzo dei sistemi a distanza, una maggior integrazione tra i medici, l’inserimento di personale adeguato che possa far fronte alla quantità di attività che il medico deve espletare in modo da lasciare più spazio all’aspetto prettamente medico e alla qualità del nostro intervento, una modernizzazione complessiva dell’approccio alla professione.
Per realizzare tutto questo è chiaro che l’attenzione, al di là di quello che si racconta, dovrebbe realmente e concretamente spostarsi in termini di finanziamenti del territorio in una realtà che continua a essere estremamente ospedalocentrica e dove la specialistica non è spalmata sui territori. Finanziamenti che dovrebbero andare non tanto, perché in alcuni casi si è pensato che il problema fosse quello, per aumentare la capienza e il numero dei posti letto e delle terapie intensive, che sicuramente sono state in crisi, sovraffollate e sotto pressione, ma per evitare che l’assistito, che la persona con problemi – al di là del problema contingente del coronavirus . trovi una cura e un’adeguata assistenza a domicilio o nelle strutture diffuse sul territorio.
Ma questa introduzione di nuove tecnologie nell’ambito della medicina generale non rischia di aumentare anche nelle cure primarie un gap tra classi sociali, tra chi ha più accesso ai sistemi di comunicazione, con maggiore dimestichezza nell’utilizzarli e quelli invece più disagiati che magari non possiedono alcuno di questi strumenti o non sono in grado di utilizzarli nel modo verso cui si sta andando? Non corriamo il rischio di andare verso una medicina che non sia più per tutti?
Rispetto ad altri mondi come quello della scuola, la medicina generale ha un po’ al suo interno, per cultura e per tradizione, degli anticorpi per cercare di non divaricare questa forbice dell’offerta di cure primarie e questi anticorpi stanno soprattutto nel rapporto continuativo, fiduciario, di scelta e di relazione che c’è tra gli assistiti e il proprio medico curante. Oltretutto se si andasse in una direzione di maggiore offerta anche di personale a livello di cure territoriali, l’utilizzo di mezzi a distanza potrebbe essere mediato da personale addestrato che si reca a domicilio del paziente lo istruisce oppure rileva determinati dati che poi vengono trasmessi. Ci sono modalità che, con adeguate attenzioni e investimenti, ci consentirebbero di andare nella direzione di migliorare il servizio offerto dalla medicina generale, senza venir meno al rapporto diretto che c’è storicamente col paziente che storicamente e che verrebbe portato avanti anche in condizioni di maggiore modernità.
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23-10-2020 00:00 +0000