Abbiamo chiesto a una dottoressa che ha operato in un reparto Covid cosa ci porteremo dietro di tutto quello che abbiamo vissuto.

Sono dell’idea che nessuno che abbia un minimo di capacità di andare oltre la superficialità possa dire di non essere stato toccato da questa pandemia. Abbiamo vissuto, come singoli e come collettività, una grande esperienza di fragilità, di precarietà, di paura e incertezza nel futuro, di cambio imprevisto e improvviso dei nostri scenari. Questo ha generato in ognuno di noi qualcosa: gestione dell’ansia e delle paure, conti da regolare con le proprie reazioni emotive, sensi di colpa, nuovi ordini di priorità dati ai valori, capacità di trovare in sé nuove risorse…. credo che nessuno possa dirsi uguale a come era a gennaio, ognuno di noi porta in sé una ferita più o meno risolta.  Per noi medici nel mondo occidentale, oltre a questo piano personale, c’è anche il piano professionale. Mai ci eravamo trovati fino ad ora a gestire una malattia sconosciuta, incurabile, contagiosa, diffusa intorno a noi. È un’esperienza che ci era stata riportata dal racconto delle grandi epidemie del passato, o da ciò che vivono i nostri colleghi nei Paesi in via di sviluppo (basti pensare alla recente epidemia di ebola). Ma mai sulla nostra pelle avevamo provato questo senso di impotenza, di frustrazione: accogliere decine e decine di malati senza avere loro nulla da offrire se non un po’ di ossigeno e di cortisone, ricoverare intere famiglie, assistere impotenti alla guarigione di alcuni (magari anziani) e alla morte di altri (magari giovani e sani… perché???), guardare una malattia di cui nessuno al mondo sapeva molto e scoprirla nella sua crudeltà e imprevedibilità, ritrovarsi a dover essere più razionali che umani (negando, per esempio, il conforto dei familiari ai pazienti morenti, per salvaguardarli dalla malattia), rischiare noi stessi di essere un pericolo per i nostri cari… Ecco, tutto questo ci porteremo dentro, per molto tempo. Ma da tutto questo noi sanitari (medici, infermieri, OSS..) impegnati in prima linea abbiamo imparato molto, facendo tesoro. Ad oggi non abbiamo ancora una cura per il COVID, ma sappiamo riconoscerlo, sappiamo come isolarlo, come evitarlo il più possibile, come proteggerci, come organizzare i reparti per evitare di contagiare altri malati, come evolve la malattia… Anche il mondo scientifico e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto e farà tesoro di tutto ciò  che è successo. Il modo in cui il COVID si è diffuso in tutto il mondo genererà nuovi protocolli per proteggersi dalle pandemie, nuovi studi, nuove conoscenze, nuove raccomandazioni da applicare a livello internazionale (a ripensarci adesso, quante informazioni contraddittorie e quante ingenuità sono circolate all’inizio dell’anno!). Chi non sembra proprio aver imparato nulla dai mesi scorsi sono una parte dell’opinione pubblica italiana (ma non solo) e una buona parte degli amministratori e di chi ha il compito di decidere le politiche sanitarie (ahimè). È desolante vedere ancora grossolani errori fatti da chi dirige gli ospedali (purtroppo persone che il COVID finora l’hanno spesso visto solo da dietro le loro scrivanie); vedere che spesso mancano le risorse nei servizi ora cruciali (tracciamento dei contatti, capacità di eseguire tamponi..); avere ancora troppo poco personale, troppi pochi letti di ospedale, troppe poche risorse; avere amministratori che fanno scelte di convenienza politica anziché ascoltare le associazioni dei medici. Ecco in questi casi viene da pensare che non si è imparato nulla. E non hanno imparato nulla coloro che sminuiscono il COVID, coloro che vogliono sentirsi “liberi di rischiarlo”, coloro che negano l’utilità delle poche armi che abbiamo (le mascherine!), coloro che invocano la libertà per se stessi mettendo in pericolo gli altri, coloro che non ascoltano o deridono i sanitari senza fermarsi nemmeno di fronte alla consapevolezza che molti di loro hanno perso la vita nel curarlo, coloro che ci ritengono addirittura in malafede… che tristezza tutto questo!