Intervista a Claudio Paterniti Martello, sociologo, collabora con Antigone come ricercatore e osservatore nazionale.

Cosa sta accadendo nelle carceri italiane, che sappiamo essere comunque un sistema malato da tempo, dall’inizio della pandemia?

La cosa principale che è successa e continua a verificarsi è lo svuotamento del carcere delle attività e delle presenze che ordinariamente lo popolavano. Per prevenzione ed evitare la diffusione del Covid-19 sono state fatte uscire dalle carceri figure come docenti, avvocati, familiari, etc. e con ciò sono venute meno le attività, già scarse, che animano il quotidiano del detenuto.

Il carcere è diventato mero contenimento, cioè stare in cella. Per i detenuti è stato ed è un periodo durissimo dominato dal vuoto assoluto in cui sono emerse angoscia e paura. Si sentono in balia degli eventi e non possono informarsi in maniera adeguata. Non va sottovalutato anche il fatto che molti di loro non parlano italiano e che l’unico mezzo informativo a cui hanno accesso è la tv che in questo periodo forniva indicazioni, come il distanziamento fisico, molto difficili da applicare in carcere per la tutela della propria salute.

L’Amministrazione penitenziaria aveva consapevolezza della velocità con cui si propagano le malattie infettive, a prescindere dal coronavirus: bisognava perciò evitare che il virus entrasse in carcere.

Durante la prima ondata si è resistito abbastanza bene. Successivamente si è assistito a una deflazione della popolazione detenuta con circa 8.000 persone in meno grazie a una maggiore solerzia della magistratura di sorveglianza per l’accesso a misure alternative al carcere. Si sono sveltite le pratiche.

C’è stata anche una diminuzione degli arresti. Era stato proprio chiesto dalle istituzioni di evitare arresti non necessari in fase di pandemia, valutando in maniera più concreta i presupposti per una misura di custodia cautelare.

Questo è molto importante perché in carcere servono spazi vuoti. Siamo quindi in una situazione di minore sovraffollamento, tuttavia ci sono almeno 5.000 persone in più di quante dovrebbero essercene.

Non ci è difficile immaginare che il Covid abbia isolato ancora di più il carcere dal resto della società, al pari delle altre istituzioni totali, come le RSA o le comunità psichiatriche: cosa puoi dirci in proposito?

Un mondo già isolato dal resto della società ha vissuto un isolamento ancora maggiore che ha causato conseguenze dolorose sia per chi subisce la detenzione sia per chi in carcere ci lavora.

Spero ci sia maggiore sensibilità da parte dell’opinione pubblica rispetto alla detenzione domiciliare. Con le regole imposte dal lockdown abbiamo visto su di noi come la privazione della libertà in sé, anche se a casa propria, ci condizioni per l’assenza di libertà di movimento.

Bisognerebbe ripensare le pene in un modo maggiormente conforme a quanto prevedeva il costituente nell’art. 27 della Costituzione che dice “(…) Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (…)”.

Nella società c’è grande confusione fra pena e carcere. Sono necessarie misure alternative al carcere per riavvicinare i detenuti alla società perché si parla di crimini che nascono da mancanza di diritti fondamentali per le persone all’interno della società stessa (p.e.: diritto al lavoro, etc.).

La popolazione carceraria spesso soffre di patologie pregresse che la espone a rischi più elevati rispetto al contagio: sono state messe in atto misure alternative alla detenzione per consentire il distanziamento
fisico e diminuire le possibilità di contagio all’interno del carcere?

Sono state fatte cose: limitati i contatti con l’esterno, quando sono stati ripresi i colloqui sono stati fatti con barriere di plexiglas, sono stati predisposti triage per le persone che entrano in carcere e sono state predisposte sezioni per l’isolamento sanitario.

Ricordiamoci che la gestione sanitaria del carcere è in capo all’ASL. L’idea è che chi si occupa della salute del detenuto debba essere in un rapporto medico-paziente e non sia implicato nella gestione penitenziaria. I tamponi in carcere seguono quindi le linee guida dell’ASL di riferimento.

Sono state avviate e come le vaccinazioni all’interno delle carceri? E soprattutto le vaccinazioni come sono state vissute dalle detenute e dai detenuti?

Le vaccinazioni stanno andando. Al 23 marzo erano circa 2.500 su poco più di 50.000 detenuti.

Si è individuata la necessità di una campagna di informazione verso i detenuti sull’importanza dei vaccini perché in varie carceri alcuni hanno scelto di non vaccinarsi, probabilmente un po’ per il caso AstraZeneca e un po’ perché dobbiamo tenere conto che il complottismo all’interno del carcere si diffonde abbastanza rapidamente.

L’esigenza quindi è vaccinare in via prioritaria i detenuti, poi il personale che lavora nelle carceri e affiancare a questo una campagna informativa.

Nel momento in cui, grazie ai vaccini, sarà raggiunta la “immunità di gregge in carcere” c’è il rischio di tornare indietro, quindi che aumenti nuovamente il numero dei detenuti e vengano limitati i loro diritti?

Il rischio connesso alla pandemia è che prevalga un modello detentivo maggiormente chiuso, improntato più alla contenzione e che tanto di quanto è stato fatto a livello di apertura del carcere alla società venga meno. L’approccio repressivo è molto più facile e ha un minor costo. Il rischio sicuramente esiste, anche perché il carcere è un terreno estremamente politico. Potrebbero venire meno molte conquiste fatte nel corso degli anni. Come Antigone continueremo ad essere vigili perché non vengano ridotti i diritti dei detenuti e crediamo che tutti debbano essere vigili su questo tema.