Intervista a Gian Luca Guizzetti, psichiatra che lavora nella provincia di Bergamo

Durante questi lunghi mesi di pandemia si è prestata un’enorme attenzione agli effetti del contagio sulla salute fisica delle persone, tralasciando un po’ gli aspetti legati alla salute mentale, forse perché l’interesse verso questa sfera è sempre stato basso anche in termini di risorse economiche. Sappiamo invece che l’emergenza sanitaria è anche psicologica e questa avrà caratteristiche strutturali e conseguenze a lungo termine. Cosa ci puoi dire dell’impatto psicosociale di questo periodo pandemico?

Per iniziare a dare una prima risposta potremmo anche partire dall’analizzare una parte stessa della domanda che declina le conseguenze dell’incontro con la pandemia in termini di Impatto psicosociale, ovvero in termini di un incontro, “un urto” dalle caratteristiche violente con una data realtà. Per comprendere le conseguenze di questo “incontro” a livello psicosociale risulta a mio parere indispensabile analizzarne le caratteristiche che, usando un linguaggio psicoanalitico, lo individuano come trauma. Ecco, quello che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo da questo punto di vista è descrivibile in termini di trauma collettivo. Nella vita individuale e in quella collettiva il trauma risponde ad alcune caratteristiche precise, la prima delle quali lo rappresenta come un “taglio”. In questi termini l’incontro con la pandemia è rappresentabile come un taglio in quanto evento di discontinuità che ha separato e separa in modo netto un prima da un poi. Le nostre vite e la vita stessa del mondo scorrevano con una certa regolarità e in un certo ordine fino all’incontro, all’impatto con la pandemia, che ha costituito un punto di rottura dopo il quale la vita individuale e collettiva non è stata più la stessa.

La seconda caratteristica del trauma è che l’evento traumatico in quanto tale è inimmaginabile, inaudito, impensabile, il soggetto e la collettività risultano impossibilitati a pensarlo come possibile. Le immagini delle nostre città fantasma, l’immagine dell’esercito che trasportava le bare nella città di Bergamo, degli infermieri vestiti come palombari per fare solo alcuni esempi, sono entrate in modo traumatico nella nostra mente proprio per la loro impossibilità a essere pensate come verosimili prima dell’impatto pandemico.

La terza caratteristica del trauma, forse la più specifica, è l’impossibilità di attuare una difesa preventiva nei confronti dello stesso, proprio perché evento inimmaginabile e inatteso. Il trauma accade e come accadimento inimmaginabile e imprevisto non può che scompaginare l’ordine costituito sia sul piano sociale che su quello individuale. Su entrambi i piani il trauma pandemico ha prodotto un ribaltamento dove tutti siamo passati da una posizione di potenza, o presunta tale (la possibilità di governare in qualche modo le nostre vite), a una posizione di impotenza e inerme. La conseguenza psicologica di questo ribaltamento ci ha gettato nell’angoscia che, diversamente dalla paura, è prodotta dall’incontro appunto con qualcosa di non rappresentabile, senza volto, invisibile come lo è il virus. Questa angoscia scatenata da un’intrusione minacciosa della morte nelle nostre vite ha di fatto alimentato, quantomeno inizialmente, due meccanismi di difesa agli antipodi: la negazione e la paranoia, entrambi distorti tentativi di dare rappresentabilità all’irrappresentabile dilagare della morte e del suo agente invisibile. Ecco io penso che l’impatto psicosociale della pandemia debba essere letto a partite dalla traumatica e angosciante irruzione di un “agente” di morte sconosciuto, invisibile e difficilmente arginabile.

L’impressione è che nei media si sia analizzato solo l’impatto psicologico del lockdown e non l’impatto psicologico della pandemia in generale (la paura di contagiare e di essere contagiati). Come si relazionano questi due impatti?

Come detto il nucleo della questione a mio parere è l’incontro traumatico con un agente di morte imprevedibile, sconosciuto, invisibile e difficilmente arginabile. L’angoscia generata da questo “incontro” si è declinata inizialmente in termini persecutori la cui intensità è stata amplificata dall’impossibilità di mettere in atto il più semplice e primordiale meccanismo di difesa, quello che divide il dentro dal fuori, gli amici dai nemici. Da questo punto di vista non trovo pertinente la metafora della guerra spesso utilizzata per descrivere il periodo che stiamo vivendo nel quale, a differenza di ciò che si vive generalmente in un contesto bellico, sono stati e sono paradossalmente gli amici, i conoscenti i potenziali veicoli di contagio, aspetto questo che alimenta angoscianti paranoie. I vari lockdown attuati per contrastare la diffusione del virus sono stati non solo una necessaria risposta sanitaria, ma anche un modo per contenere questa angoscia persecutoria prodotta dall’intrusione minacciosa del virus. In qualche modo almeno inizialmente la nostre case hanno rappresentato un luogo percepito come maggiormente sicuro rispetto a un fuori dove il virus sembrava non avere argini. Abbiamo tutti fatto esperienza di un necessario confinamento che in parte ci ha salvati e ci ha fatto sperimentare un tipo di etica collettiva dove la libertà individuale ha dovuto necessariamente subordinarsi a un senso di protezione collettivo e solidale. A lungo andare a questa angoscia persecutoria e ai suoi meccanismi di difesa si è sostituita un’angoscia di tipo depressivo alimentata dal susseguirsi e dal protrarsi dei vari lockdown che hanno gradualmente accresciuto il depressivo senso di perdita del mondo come lo conoscevamo e delle vitali dinamiche sociali all’interno delle quali scorreva la nostra vita.

Per molte persone riconoscere di avere bisogno di un aiuto psicologico e ricorrervi non è cosa scontata e non lo è soprattutto nelle zone più periferiche e nelle realtà piccole. Il fatto di essere dentro un dramma collettivo, una tragedia di massa, ha contribuito a superare lo stigma della richiesta di aiuto oppure no?

L’impressione, quantomeno nella provincia di Bergamo dove vivo e lavoro, è che gli accessi ai vari sportelli di supporto psicologico siano stati inferiori alle attese. Questo dato va, a mio parere, interpretato innanzitutto con i tempi di latenza necessari e strettamente individuali tra l’impatto con il trauma e l’espressione di un disagio psicologico che non sempre si declina nei termini rapidi di un’emergenza. Va poi aggiunto che pendere consapevolezza di avere un disagio di tipo psicologico non sempre produce la ricerca di un aiuto da parte di un professionista e questa è una problematica ben conosciuta da chi come me lavora nei servizi di salute mentale. Queste resistenze non sono prodotte esclusivamente dallo stigma verso il disagio psicologico, ma anche da un contesto sociale nel quale al centro non è più il pensiero, l’attesa e la riflessione individuale, ma l’agito, il fare, il produrre e l’andare avanti nonostante tutto e tutti. Lo slogan diventato famoso della mia provincia bergamasca “mola mia” (non mollare) penso possa rappresentare da un lato la determinazione nel combattere la tragica realtà che stiamo vivendo, ma dall’altro anche una resistenza nel prendere atto e nel dare parole a un profondo disagio psicologico che può produrre e amplificare fragilità personali che portano a “dover mollare”, a indietreggiare dinnanzi a questa tragica realtà. Fare i conti, insomma, con il fatto che prima di ripartire si debba in qualche modo rielaborare l’esperienza traumatica che ci ha travolto.

Come è stata ed è vissuta l’emergenza sanitaria nelle strutture residenziali per malati psichiatrici e, anche qui, quali carenze ha messo in evidenza la pandemia?

All’interno della strutture residenziali psichiatriche si è a mio parere assistito a un duplice e per certi versi antitetico effetto della pandemia; nel corso del primo lockdown i pazienti ospiti hanno affrontato la pandemia e le restrizioni imposte come tutta la popolazione; si sono confrontati quindi con le limitazioni e le angosce di tutti e questo paradossalmente li ha fatti sentire parte integrante della società civile (tutti avevamo le stesse limitazioni e dovevamo sviluppare un senso di resilienza). Dopo il 4 maggio 2020 si è invece sviluppato un discorso antitetico nel quale, contrariamente alla popolazione generale, i pazienti delle comunità psichiatriche hanno dovuto continuare a confrontarsi con delle limitazioni che per il resto della popolazione erano venute meno. Questo ha, a mio parere, evidenziato una drammatica recrudescenza di una visione stigmatizzante verso chi soffre di disagio psichico che, è bene ancora una volta ribadirlo, non perde i suoi diritti di libero cittadino solo perché sta affrontando un percorso di riabilitazione comunitaria; anzi penso non ci possa essere alcun tipo di percorso terapeutico se non a partite proprio dal garantire i diritti civili e personali dei soggetti coinvolti.

Quali momenti potremmo cercare come comunità per affrontare insieme gli strascichi psicologici della pandemia?

Per rispondere a questa domanda mi viene da scomodare un’affermazione di Basaglia a proposito della follia: “se la follia è un’esperienza del buio, e la follia è un’esperienza del buio, bisogna che noi impariamo a farne qualcosa del buio”. Ecco l’impatto traumatico con la pandemia è stata un’esperienza collettiva di buio, farne qualcosa vuol dire, a mio parere, promuovere momenti comunitari nei quali elaborare il lutto della nostra presunta onnipotenza e sviluppare un senso etico di appartenenza dove sperimentare un senso di libertà solidale, un nuovo concetto di libertà che si confronta necessariamente e in modo vitale con il senso del limite. Questo esercizio generato dall’incontro traumatico potrebbe contrastare uno dei mali della società moderna quello cioè di una spinta individualistica e consumistica nella quale il concetto di limite tende ad essere costantemente travalicato dall’imperativo di un soddisfacimento personale istantaneo, autocentrato e illimitato che ci separa inevitabilmente dalla possibilità di costruire una vitale relazione con l’Altro e con il mondo che abitiamo.