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Tempi pandemici e irrazionalità – Intervista a Emanuela Bavazzano, psicologa e psicoterapeuta
Intervista a Emanuela Bavazzano, psicologa e psicoterapeuta
Come la pandemia ha modificato i concetti di razionalità e irrazionalità?
Sono due parole molto interessanti, non voglio fare un discorso linguistico, però credo che in questi tempi la lingua abbia avuto un suo significato. Il tema di cosa è razionale spesso si associa a cosa è più corretto fare, ma non è detto che questo sia sentito e vissuto anche emozionalmente (irrazionalmente).
Io dividerei in due tempi questo periodo di pandemia – poi divenuta sindemia – . Riguardo al primo tempo credo ci sia il bisogno di riunire i vissuti che inizialmente hanno riguardato solo e soltanto le persone che sono entrate dentro il tema del contagio, in una spaccatura rispetto alle persone che hanno visto il mondo dall’esterno - esterno dagli ospedali, esterno dal contagio: ho conosciuto realtà dentro le quali mi sono sentita fare discorsi tipo “non ci ha riguardato” oppure “abbiamo vissuto la bellezza del potersi ritrovare in famiglia e dentro casa”. Mi riferisco anche a contesti nell’ambito della sanità e dei servizi socio sanitari e a persone dentro questo ambiente, non mi riferisco solo alle persone che dall’esterno guardavano, attraverso gli schermi di una televisione o di uno smartphone. Un pensiero quindi che può sembrare quasi irrazionale, ma in realtà è stato espresso dentro una logica di razionalità di un mondo staccato dagli ospedali e dai luoghi dove effettivamente si è visto e toccato con mano il tema del covid, in quel primo tempo soprattutto associato alla morte. Dall’altro lato chi è stato coinvolto dall’interno è stato dentro un vissuto di angoscia di morte, e qui il tema che principalmente ha caratterizzato l’irrazionalità, se si vuol dir così, cioè quel vissuto più emozionale, è stato il tema della sopravvivenza, tipico anche del disturbo post traumatico da stress, un termine clinico senza parlar di clinica. Ci sono poi i vissuti di chi ha impattato con una morte rapida senza poterla comprendere; ho compartecipato accompagnando persone che hanno dovuto rapidamente elaborare la perdita di un familiare o di due familiari in contemporanea dentro la stessa famiglia, elaborare i vissuti di colpa per essere stati (forse) veicoli di contagio. Qui c’è stato il tema dell’irrazionalità, perché non era razionalizzabile, spesso anche non era nemmeno narrabile, cioè non c’era qualcosa di logico da poter mettere in ordine sequenziale, il tempo dell’impatto e dell’elaborazione non c’è stato e soprattutto il tempo di quelli fuori (non coinvolti direttamente) è stato diverso dal tempo di quelli dentro, rendendo a volte i racconti provenienti dalle esperienze vissute narrazioni epiche – eroiche distanti, non sempre sentite così possibili per altri, scisse forse dal condivisibile Viceversa a mio parere nel secondo tempo - oggi, chi dice ho il covid, ho avuto il covid non lo associa più al tema dell’angoscia di morte, o almeno non è così forte questa libera associazione. E quindi forse questi temi si vanno contaminando e sembra di essere, almeno a mio parere, in un mondo completamente diverso, come se il covid non fosse più associato all’angoscia di morte, e quindi ai vissuti irrazionali. Oggi di fronte al Covid paradossalmente anche le persone anziane dicono di sentirsi protette dal vaccino, alcune preferiscono contagiarsi, adesso convinte di potersi immunizzare. Anche questi sono a mio parere pensieri irrazionali. E’ importante però tenere presente che esistono un primo tempo e un secondo tempo da distinguere anche proprio su un piano dei vissuti psicologici, cioè dal tempo dell’angoscia di morte di covid al tempo del covid malattia comune con cui dobbiamo conviverci. Questi sono i due macrotemi: la morte con la sua ineluttabilità e la convivenza con una evenienza possibile, meno temibile, più gestibile: questi sono i due temi che si associano ed in parte sono stati contrapposti, sul piano psicologico.
Su questo hai iniziato a toccare un tema delicato sul quale questa irrazionalità si è spesso vista. Abbiamo assistito anche a un tipo di irrazionalità nel rapporto con la scienza, con la medicina, col vaccino. Come leggi queste irrazionalità dal tuo punto di osservazione?
Il tema vax/no vax nella dicotomia che distingue e separa due estremi (estremismi) rischia di essere riduttivo, preferisco il pensiero di chi vuole riflettere criticamente. Fin dall’inizio a mio parere c’è stata la necessità di diffondere informazioni, fare formazione e ragionare in termini di pensiero critico, consistente nel fatto che ciascuno potesse portare il proprio contributo per un confronto comune, perché il dilemma etico è sempre esistito. E credo che sia importante e anche da rispettare: perché ci sia rispetto della libertà, della libera scelta, è necessario che le persone ricevano informazioni di fronte alle quali potersi effettivamente porre in un’ottica di scelta. Se io non ricevo informazioni e non sono formato non posso scegliere. Io credo che anche su questo probabilmente ci sia stato il primo e il secondo tempo. Perché nel primo tempo, parlando appunto anche con personale medico, particolarmente anestesisti, con infermiere e infermieri - soprattutto dentro i reparti di terapia intensiva, ma anche dentro i cosiddetti reparti bolla, quelle zone di confine tra i reparti ordinari di medicina e la terapia intensiva - il vissuto era quello di persone che sapevano che, una volta intubate, la probabilità di decesso era molto alta, ma non per l’intubazione di per sé, ma perché essere intubati significava essere in una situazione di compromissione importante. A questo si associavano anche tutti quei temi della sanità, non proprio della salute, dove sapevamo che non c’erano abbastanza respiratori, ma non c’erano nemmeno le stanze idonee dove poterli attaccare, perché non è semplicemente una questione di macchine, è anche una questione di luoghi idonei ad accogliere quelle macchine e di personale, personale formato per determinate mansioni. Ho assistito persone, o meglio familiari di persone, che sono decedute perché magari sono state fatte delle manovre invasive come la tracheotomia da parte di personale che non era adeguatamente formato ,perché si era trovato buttato dentro una situazione di emergenza – urgenza provenendo da reparti di altro tipo, oppure perché assunto da poco. Dico questo perché credo che il pensiero critico della persona che dice “preferisco restare a casa e andare avanti il più possibile senza dover entrare in ospedale” l’ho ritenuto anche un pensiero saggio, chiaramente appoggiandosi a figure di area medica e infermieristica capaci di supportare un certo tipo di scelta. Si torna al tema della scelta. Io devo mettere le persone in grado di scegliere se in quel momento, e via via nei giorni, è conveniente, nell’ottica dell’equilibrio psicofisico, mantenersi a domicilio piuttosto che andare in ospedale, devo poter avere strumenti minimi per capire se la sintomatologia stia andando ingravescendo oppure in remissione, e per fare questo devo avere personale competente vicino, anche attraverso i supporti tecnologici. E questo era già un dilemma etico secondo me per risolvere il quale bisognava dare informazioni ed informazioni fornite da personale competente.
Credo che sia qualcosa di molto simile anche il pensare in termini critici al vaccino, ovvero a quanto il vaccino mi possa essere necessario e sufficiente per una copertura che mi renda tranquilla o tranquillo. Probabilmente è passata una comunicazione distorta, pericolosa, che è stata la parola “immunità” relativamente al vaccino. A mio parere a livello psicologico è stata assolutamente pervasiva e pericolosa, perché è stata letta dal mondo del “non-ci-credo-al-covid” con una grande leggerezza e superficialità, ma anche dall’altro estremo, da parte di chi invece ci ha creduto fin dall’inizio e non aveva magari l’informazione corretta, come “a questo punto sono protetta e protetto e quindi non mi proteggo con altri strumenti” (esempio le mascherine erano quasi scomparse, sostituite a volte solo da un telo di stoffa, simulacro di un dpi scotomizzato e rimosso dall’immaginario collettivo medesimo – tempo intermedio tra il primo ed il secondo). C’è stato un tempo intermedio dove ho sentito le persone critiche rispetto al vaccino molto più sagge nel rapportarsi con gli altri, cioè sono state molto rispettose forse proprio perché sapevano di non essere immunizzate, hanno cercato di proteggersi attraverso altri strumenti, quegli strumenti che oggi sappiamo essere ancora necessari. Il vaccino è uno strumento, ma ce ne sono anche altri e anche questo richiede un mettere insieme razionalità e irrazionalità, cioè pensiero logico e anche scientifico con pensiero emozionale, rispettoso dei propri vissuti. Forse occorre anche rapportarsi nei confronti delle persone che non credono al vaccino in termini critici, cioè davvero cercando di sintonizzarsi con i loro pensieri e arrivare poi a quella strada di incontro dove fare una valutazione condivisa. Non mi piace la parola compromesso, non la userei mai, però sarebbe importante trovare un equilibrio tra il rispetto di diverse posizioni che non sapremo fra due o dieci anni che riconfigurazione avranno. Cioè se io penso agli strumenti che ho per proteggermi penso a un insieme di strumenti, non penso a uno solo e quindi anche la contrapposizione vax/no vax come fosse un pensiero semplice in una trasposizione di obbligatorietà è riduttivismo, a mio parere, cioè sei d’accordo o sei contro. Oggi dobbiamo includere i vissuti di morte eppure anche il bisogno di leggerezza, ma non di superficialità, l’angoscia di morte - ma non il pantano dove di fronte al covid mi blocco, mi paralizzo e a quel punto mi arresto in una stasi depressiva e di non elaborazione, scotomizzata dal pensiero semplice di chi dice “ho il vaccino quindi mi salverò” oppure “non faccio il vaccino perché tanto è solo un’influenza”. Tutto il pensiero si/no in senso riduttivista è comunque molto pericoloso. Tutti quei pensieri che si fondano su un confronto aperto libero e inclusivo secondo me sono da considerare, in un dibattito aperto, non come manifestazione di piazza, ma proprio come dialogo uno a uno con le singole persone, con gruppi di persone, senza partire dal presupposto di schieramenti contrapposti, che non sono mai serviti a nessuno soprattutto a livello collettivo.
La comunicazione sulla pandemia è stata errata fin dall’inizio. Fin da subito ci è stato detto che eravamo in guerra contro un nemico invisibile. Come ha impattato questo tipo di comunicazione sui vissuti quotidiani delle persone?
Il termine che hai toccato credo che sia molto importante da disambiguare**, perché le parole violente richiamano violenza**. Ho davanti l’ultimo numero di Azione Nonviolenta, che rimette insieme interviste di persone che hanno fiducia nel vaccino, ed altri articoli di persone che non ci credono, ma che almeno vanno nell’ottica del pensiero critico. Nell’ambiente della nonviolenza un tema trasversale e condiviso da tutti è che non dobbiamo pensare di essere in guerra. Penso sia importante cercare un dialogo volto a disambiguare questi termini non come pura disquisizione sul lessico, ma perché bisogna proprio cercare di cambiare linguaggio. Non siamo in guerra anche perché la guerra presuppone che ci sia un nemico e il nemico chi è? Il covid che è una malattia che viene da dentro o almeno che arriva dentro di noi? È un nemico interno allora, e come fare quindi a farci la guerra, dovremmo avviare una lotta autolesionistica. Oppure dall’altra parte il covid è il nemico che sta all’esterno e allora è quel fantasma che non esiste oppure che va combattuto armandoci contro questa entità. Richiama comunque un discorso di schieramenti contrapposti, dentro/fuori, vax/no vax, sempre e comunque in una ottica violenta e di morte. Non mi piace lo schieramento dell’esercito, non mi piace vedere quelli con le armi per strada, mi fanno paura. Questa modalità di approccio a quella che è una pandemia ha creato una comunicazione distorta: penso che per affrontare una convivenza con un virus, con una malattia potenziale che il virus stesso può creare, dobbiamo porci in tutt’altro atteggiamento. **Quando dobbiamo elaborare un fenomeno nuovo all’inizio ci si blocca e ci si spaventa, poi passa la paura che aveva bloccato e si ritorna alla normalità, altro termine sbagliato a mio parere. Quale normalità?** Ogni fenomeno dentro cui ci troviamo porta dei cambiamenti, la normalità era prima e sarà dopo, bisogna vedere cosa intendiamo per normalità. Quindi superato il primo shock davanti ad un fenomeno in acuzie, fenomeno – evento che prima o poi se ne va (come fa la malattia acuta contrapposta a quella cronica), quando realizziamo che forse dobbiamo invece conviverci per un tempo non ben definito (come con la cronicità), dobbiamo attivarci per trovare degli strumenti corretti per starci dentro e tra questi strumenti fondamentale è la comunicazione, che non è fatta solo da esperti. Su un piano di “comunicazione sulla comunicazione” non posso pensare che solo alcuni abbiano la possibilità di dire cosa si deve fare solo perché hanno studiato sui libri e hanno un titolo. No, io credo che tutte le persone che si sono messe a leggere, ad approfondire e a dialogare con altri abbiano diritto di parlare, sempre nell’ottica del pensiero critico. La comunicazione deve essere trasversale tra chi è passato dentro nella prima fase (il primo tempo, soprattutto dentro gli ospedali – le terapie intensive) e, sopravvissuto, ci porta la propria esperienza e chi è rimasto fuori ovvero ha vissuto una eventuale seconda fase (il secondo tempo di contagi pervasivi, come al tempo odierno, dentro le case). Ho trovato un cosa bellissima quella che hanno fatto alcune persone che hanno trasformato la loro esperienza in testimonianza per altri. È questa una comunicazione che trovo corretta perché passa attraverso l’esperienza, tanto quella di chi è stato in prima linea – altro linguaggio mutuato dalla guerra, eppure è stato utilizzato frequentemente, quanto quella di chi ha atteso le telefonate dagli ospedali, le notizie – i “bollettini” medici, spesso resoconti asettici che non presupponevano un dialogo tra interlocutori ma sono una restituzione al familiare di un miglioramento oppure di un peggioramento, che spesso prefigurava infausti scenari. Ma anche la domanda, la domanda stessa del familiare rispetto al “come sta la mamma? come sta il babbo”… la domanda è comunicazione, apre la comunicazione, diversamente non c’è dialogo. La comunicazione c’è perché ci sono più interlocutori, altrimenti è un comizio, piuttosto che un annuncio asettico, una comunicazione a senso unico. E così come nel transito di informazioni da dentro a fuori gli ospedali, così nel passaggio mediatico. Viene scritta la notizia e io la leggo, accetto o non accetto, cambio giornale - già questa è un’azione politica importante -, ma poi dopo la lettura c’è bisogno del dibattito. Secondo me non c’è stato abbastanza dibattito libero sulla pandemia e la comunicazione è stata, come ora in parte è, per spot, slogan, attraverso Facebook o Twitter, passano messaggi con poche parole, o per titolo, o per fenomeni sensazionalistici con cui scioccare. **Sappiamo che scioccare aiuta a impattare in un fenomeno, ma aiuta anche a creare meccanismi difensivi per proteggersi dalle notizie stesse. E questa è irrazionalità.** Ma è anche un modo difensivo psicologico: per difendermi, non scelgo di negare, ma per la paura di ascoltare notizie dove si parlava di morte tutti i giorni, qualcuno ha detto di non farcela più, ha chiuso la comunicazione sui numeri. Da qui si apre il dibattito su come convivere, come starci dentro, come attraversarlo il Covid. E oggi cosa succede? Anche oggi qualcuno sta riprendendo a chiudere gli schermi ed a non voler più ascoltare questo tipo di “comunicazione”.
**Altro tema che mi è caro è quello della psicopatologizzazione della normalità**. **Come il linguaggio della guerra, anche il linguaggio della patologia va contrastato, si parla di panico e di depressione pensandola come disturbo depressivo maggiore, patologico, non come vissuto depressivo che ognuno di noi, per essere sufficientemente sano, deve avere impattato**. Se qualcuno mi dice di non aver mai vissuto la depressione rimango perplessa, parliamone, vuol dire che non ha mai vissuto, perché un’esperienza di vita finisce e ne inizia un’altra, posso accettare una perdita oppure la subisco. Tutte quelle volte che affronto un cambiamento nella vita affronto una fase depressiva, ma questo non significa che ho un disturbo depressivo. Ho l’ansia, ho l’angoscia? Questo non significa che ho un attacco di panico o un’ansietà da sedare, mi riferisco a tutto l’uso e abuso di psicofarmaci che oggi è da contrastare con un dibattito quotidiano. Questo è un altro tema di confronto, e forse anche di scontro, tra esperti, non esperti, presunti esperti, tra psichiatria e psicologia, fra chi ha una lettura della psicologia e chi un’altra. **È importante usare un linguaggio corretto anche in ambito psicologico e medico, perché altrimenti si esce dal tema della guerra e si entra nel tema di un’altra guerra, dove magari non c’è il carcere, ma c’è il manicomio con tutte le sue derive** (è attuale la misura coercitiva che passa per i farmaci piuttosto che per le strutture dove segregare, isolare, neutralizzare il disagio e chi lo porta con sé). Se qualcuno non riesce a impattare col tema del covid intanto lo sedo per tranquillizzarlo (con un ansiolitico), gli dò un antidepressivo (per fargli vedere il mondo attraverso una lente che filtra), ma non gli fornisco delle risposte che effettivamente trasformino. Sappiamo che le persone intubate a lungo e sopravvissute hanno dovuto essere sedate chimicamente e sono stati somministrati loro cocktail di psicofarmaci che hanno creato stati allucinatori a cui ho direttamente assistito. Quello non è il post trauma (disturbo post-traumatico da stress), o perlomeno non solo: è l’effetto collaterale di una sedazione prolungata a cui nemmeno i medici erano preparati. Tutti quegli stati allucinatori hanno avuto bisogno di remissioni spontanee, non di altra chimica per controbilanciare.
Psicologicamente a livello di comunicazione sono contraria al linguaggio della guerra, ma contrarissima anche al linguaggio della (psico)patologia. Dobbiamo prestare attenzione anche a chi dice che bisogna pagare gli interventi di sostegno psicologico. Dipende da quale intervento si tratta, perché se l’intervento è psicologo/a che, nella complicità del rapporto con la psichiatria legge i disagi come patologia da neutralizzare (dopo averla giudicata negativa), io sono contraria, perché contrasto questo modo riduttivo di affrontare i problemi, che significa sedarli, che ha come unico risultato creare delle filiere dove se non c’è il rimedio farmacologico c’è il rimedio della delega a un presunto esperto che ti deve dire cosa devi fare, come devi uscirne e che legge il tuo vissuto come patologico (il nome che significa viene attribuito dall’esperto al presunto non – esperto – paziente). Sono più preoccupata dalla negazione prolungata (di vissuti derivanti dal disagio) o da persone che affrontano la situazione in cui ci troviamo in maniera serafica, perché può darsi che siano un po’ scisse rispetto al piano reale, e se la scissione è prolungata diventa un problema, perché significa che non si sta riuscendo a trovare degli strumenti per affrontare il reale. E anche questa è comunicazione**. La comunicazione degli esperti può essere pericolosa soprattutto quando sono loro che ti dicono che cosa è patologico, ripristinando, tra l’altro, una divisione di classe tra l’esperto che ti dice cos’è patologia e tu che subisci quell’etichetta**. **È forse più importante una persona “esperta ignorante”, ma che ti accompagna in una trasformazione dei vissuti, cosa che può avvenire dentro case sufficientemente sane, con il compagno/a, con l’amica/o, con chi si incontra per la propria strada, non necessariamente attraverso gli interventi di esperti magari pure a pagamento**.
Ti faccio un’ultimissima domanda ed è sui cosiddetti casi di Long Covid. Abbiamo visto, soprattutto nel primo tempo, persone che hanno avuto il Covid in maniera molto violenta, sono state ricoverate in terapia sub-intensiva e intensiva e che quando sono tornate a casa hanno avuto forti ripercussioni. In questo secondo tempo il fenomeno è meno evidente, anche se ci sono persone contagiate in maniera lieve che sono cambiate completamente rispetto a prima del contagio. Da che cosa è causato questo e come succede che le persone si trovino in questa situazione?
Ho sottomano un paio di articoli. Anche su questo tema secondo me ci sono delle componenti miste e come tutte le situazioni miste vanno un attimo disambiguate. Quindi sì, da un lato la sintomatologia, in questo caso è corretto usare questo termine, di tipo organico, somatico, dall’altra quella di tipo psichico ed emozionale. La componente somatica ritengo che debba essere correttamente riattribuita anche a una diagnosi precisa, che probabilmente anche la scienza medica non sa ancora disambiguare (gli studi longitudinali sono in corso e richiederanno ancora altro tempo per essere completati). L’esempio che ponevo prima dell’effetto collaterale di una sedazione prolungata che va chimicamente a incidere su alcuni organi, creando delle ripercussioni di tipo neurologico, porta alla domanda: è il Long Covid che lascia degli strascichi sul piano neurologico? Oppure è la chimica che crea la famosa malattia iatrogena, cioè la malattia che è conseguenza di una terapia? La iatrogenesi c’è stata e c’è anche qui. Però ritorniamo alla somatica, sicuramente anche il tema della dispnea, dell’affaticamento, prima di pensare che siano fenomeni emozionali, dobbiamo pensare che siano, soprattutto nelle malattie gravi del primo tempo, sintomatologie dell’area della pneumologia che si intreccia con la cardiologia. Credo che questo sia stato e sia un tema importante su cui ancora pneumologi e cardiologi stanno studiando, perché chiaramente le conseguenze si sono viste, riscontrate anche attraverso esami strumentali.
A livello di interfaccia con la psicologia mi sono trovata di fronte, come spesso succede, a dover riattribuire le cause a fenomeni che sono di tipo neurologico, cardiologico e pneumologico. Perché dico questo? Perché spesso questi fenomeni, e parlo appositamente di fenomeni e non di sintomatologia, sono a eziologia mista, quindi non abbiamo una chiara evidenza scientifica, per quanto ci siano studi in corso su quanto insonnia, confusione, paura, depressione (uso termini tratti da ricerche scientifiche ultime e da metanalisi su ricerche) siano davvero di eziologia psichica. Quindi l’impatto con la “paura di” (esempio la paura di morire), o quanto in realtà ci siano davvero delle componenti derivanti anche dalla malattia che ha lasciato segni, se a livello cardiaco (ad esempio) si possono esaminare meglio, per quanto riguarda il livello neurologico è chiaro che non è possibile spiegare tutto con esami di laboratorio o strumentali.
Credo che i sintomi del Long Covid siano emersi nel primo tempo e su questi si possa oggi studiare, perché abbiamo davvero un prima-dopo, anche se ancora sarà necessaria ulteriore ricerca scientifica. Credo che oggi vada aperto un interrogativo sul fatto che il Covid che circola ora, forse attenuato grazie al vaccino, magari non è violento nel momento in cui impatta sull’organismo, però lascia delle conseguenze soprattutto sull’affaticamento, sull’apparato respiratorio (e su questo davvero ancora non abbiamo dati sufficienti a fare dichiarazioni basate su numerosità dei campioni sufficienti per estenderli alla popolazione). Magari è meno persistente il dolore toracico, addominale, etc., ma persistono altre sintomatologie che probabilmente andranno lette non tanto a breve termine, quanto più a lungo (12-18-24 mesi,) nel momento in cui ci sarà un “ritorno alla normalità” di una salute fatta di dimensioni biologiche, psichiche ed anche sociali (relazionali). Credo che sia importante in questo comunque vedere il tema della diminuzione della sintomatologia: la ricerca sta portando a evidenza che sono tutti fenomeni che con il tempo vanno diminuendo. Questo ci fa pensare che siano fenomeni che impattano in acuzie, ma poi non si trasformino in malattie croniche. Lo sappiamo che dopo l’acuzie si può andare anche verso una cronicizzazione di sintomi, ma dalla ricerca che leggo ultimamente si parla soprattutto di remissione graduale. Bisogna darsi tempo. In questo la psicologia può accompagnare le persone a stare in questo tempo senza la fretta di dover risolvere immediatamente, ma anche un po’ rassicurando sul fatto che almeno chi non ha avuto il Covid in forme gravi, non cronicizza in uno stato patologico, ma deve smaltire quell’impatto nell’acuzie, esattamente come deve smaltire la chimica. Ripeto, dico questo perché mi sto informando su questo tema e sto leggendo contributi di tipo scientifico. In fieri se penso che l’incidenza di questi fenomeni è diminuita, penso che non dopo 12 mesi, magari 18-24 mesi, avremo una remissione totale È un messaggio secondo me che può essere rassicurante, ma al tempo stesso da monitorare, perché è quello che oggi ci porta a dire che il Covid non è in prevalenza una malattia mortale, soprattutto se sono vaccinato - al di là delle varianti che ci sono e ci saranno - però attenzione, perché c’è un tempo di remissione che non è immediato. Magari dura qualche giorno, ci si negativizza in dieci giorni, però ugualmente ci sarà bisogno di un tempo per negativizzarsi nell’ottica della fenomenologia del Covid, non come acuzie, ma come qualcosa che poi richiede un tempo per essere elaborato non solo dalla mente psichica, ma anche dal corpo fisico.
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16-01-2022 10:11 +0000